Se volessimo, per gioco, trovare il momento in cui l’Italia si è innamorata del Giappone, di sicuro qualcuno potrebbe citare i primi cartoni animati giapponesi (anime) come Goldrake e Lady Oscar; allo stesso modo, se uno dovesse chiedersi quando il Giappone si è innamorato dell’Italia parlerebbe del dopoguerra e di come le nostre marche di vestiti abbiano investito il sol levante. Ma sbaglieremmo.
La relazione che c’è tra questi due mondi è incalcolabile in termini di tempo, di storie o anche di nomi, ma può essere misurata solo nel come queste hanno impattato l’una sull’altra. Non esiste un metodo univoco per misurare l’impatto di una cultura, ma, anche solo per semplicità, io dico perché non usare poesia?
Il motivo è presto detto: la letteratura può essere considerata la tipologia d’arte meno concreta prodotta dall’uomo, non basandosi su nessun senso per essere fruita, ed essendo la poesia il metodo letterario in cui parole sono messe maggiormente alla prova … Insomma, un gioco molto interessante, anche solo da fare.
Qui per forza di cose possiamo citare opere passate come “Madama Butterfly” di Puccini e di come poeti come Gabriele D’Annunzio hanno colpito il cuore dei lettori giapponesi del tempo. D’altronde, queste sono forse tra le culture poetiche più raffinate e influenti a livello mondiale e difficilmente non si sarebbero mai incontrate in un qualche ambito artistico. Sappiamo che l’Italia ha donato al mondo il sonetto, diventato poi il mattone nell’intera letteratura occidentale (da Shakespeare a Garcia Lorca passando per Baudelaire). Il Giappone, invece, ha donato al mondo forse la forma più condensata e intensa di letteratura mai prodotta dalla mano umana: l’haiku. Ma cos’è?
Gli haiku sono componimenti brevi che nacquero come parte di altri componimenti più corposi come i tanka e i renga, per poi evolversi in un componimento a parte (prima chiamato anche hokku, ovvero “strofa iniziale” e poi haiku che è la contrazione di haikai no ku cioè “strofa scherzosa”). La tematica principale è la natura, più propriamente immagini naturali ed evocative con spesso associati significati estremamente vari e ampi, mescolando religione e filosofia con un occhio acuto alla vita di tutti i giorni e non risparmiando anche toni giocosi e allegri (da qui il “scherzoso”). Può essere definito come il tentativo di imbrigliare in un pugno di parole il “battito di vita dell’universo” (parole di Elena Del Pra nell’introduzione in “Haiku-Il fiore della poesia giapponese da Basho all’ottocento”, Mondadori, 2017). Tanti sono stati gli autori che hanno influenzato il genere come Basho, Issa, Buson e Shiki (i quattro maggiori), ma altrettanto validi sono stati Ryokan e Soseki (esistono piccoli volumi editi di ciascuno tradotti e adattati da Peter Otiv Norton, Matteo Contrini, Lorenzo Marinucci per La Vita Felice). Questi quantomeno ho avuto modo di studiare nella loro poetica.
A differenza però del sonetto, l’haiku non è mai riuscito a spargersi molto fuori dal Sol Levante. In occidente pochi autori si sono cimentati sul genere e ancora meno con costanza, specialmente sul metro (da citare il buon tentativo moderno del renga de “La rosa d’oro” Zennaro e Bucciarelli). Alcuni tentativi di trarre ispirazione in occidente sono stati compiuti con diversi livelli di successo, ad esempio, da gruppi come gli Immaginisti (vedi Ezra Pound) per la sua brevità evocativa e gli scrittori della Beat Generation (Jack Kerouac e Allen Ginsberg) per la sua capacità di evocare illuminazioni di carattere buddhista. E’ però vero che nessuno di loro sia riuscito a fare una trasposizione efficace o in generale a portare il metro nella loro lingua, accontentandosi di alcuni elementi per rimpolpare la propria poetica.
Il motivo risiede prevalentemente in praticamente ogni punto di questo metro poetico, motivo per il quale è doverosa anche una spiegazione strutturale.
Gli haiku si suddividono in versi da 5-7-5 sillabe (unità semantiche nel caso giapponese, dette on, essendo una lingua costruita su parole non divisibili in sillabe come la nostra) e contengono un kigo, cioè un riferimento alle 5 stagioni classiche giapponesi (l’ultimo dell’anno è considerato come una stagione a parte), e un kireji, ovvero una cesura, più propriamente un on avente diversi significati emotivo-semantici. Viene facile capire come queste regole applicate ad uno spazio così contenuto hanno aiutato a rendere de-facto inapplicabile una costruzione perfetta di questo metro in occidente, considerando anche un abbandono progressivo della metrica nella poesia mondiale.
Però … è un peccato, un peccato che un esercizio di così concisa lucidità venga abbandonato, no?
E’ per questo che nella mia piccolezza ho provato a rendere questa forma poetica in qualcosa di maggiormente malleabile, facilmente accessibile ad un lettore occidentale sia nella scrittura che nella lettura usando come punto di arrivo la mia lingua, l’italiano (altri autori sono incentivati a seguire queste orme nelle proprie lingue native) producendo qualche esempio.
Per semplicità spiegherò come ho affrontato il problema attraverso ai problemi che ho incontrato:
- kireji e kigo
- Struttura metrica
- Relazione Uomo-Natura
kireji e kigo sono l’ostacolo principale di natura strutturale alla realizzazione dell’haiku. Essendo il primo semplicemente una sillaba di separazione, spesso reso in traduzione con un segno di interpunzione o un trattino (‘-’), e il secondo una parola caratterizzante la stagione di riferimenti, viene facile pensare di ignorarli. Senza contare che molti di questi sono contenuti in liste non tradotte per noi occidentali e la frittata è fatte. Personalmente trovo che sia un peccato e, anzi, un atto di pigrizia e mancanza di cura escludere kireji e kigo dal componimento, visto quanto questa mancanza toglie profondità al prodotto finale. Inoltre, non scordiamo che non li si potrebbe nemmeno definire haiku senza.
Per tale motivazione ho deciso di sfruttarli e riportarli nei versi che ho deciso di comporre. Data la scarsità dei documenti e di quelle famose liste di sopra, ho fatto una scelta diversa per l’uno e per l’altro.
Per i kigo ho scelto di ignorare gli originali giapponesi e di riprendere l’immaginario stagionale dell’Italia, sia perché molto spesso coincidenti (es. la neve per l’inverno, il sole per l’estate, i fuochi d’artificio per l’ultimo dell’anno) sia perché i pochi dissimili avrebbero creato confusione nel lettore (es. il vento nel monsonico Giappone è tipicamente invernale, mentre nella mediterranea Italia più un segno dell’autunno). In questo modo un lettore italiano si troverebbe di più con le indicazioni stagionali che ha visto e sentito per tutta la vita, piuttosto che qualche riferimento elaborato ad una cultura stagionale a lui estranea (pensiamo già anche solo all’osservazione dei ciliegi, l’hanami, che per un giapponese è estremamente importante mentre per noi è al meglio un simpatico pic-nic). In aggiunta ho voluto sfruttare spesso anche l’assenza di un kigo giocando quindi sullo smarrimento stagionale (vedi la parte sul rapporto uomo-natura).
Per il kireji, invece, sono andato di brutale adattamento. Questo non vuol dire che ho messo una sillaba a caso al posto di un trattino o un punto. Ripeto, adattamento vuol dire trovare un modo per riportare il senso del formato originale nella lingua d’arrivo. Data la straordinaria dolcezza delle lingue italiana e giapponese è possibile, infatti, trovare delle parole che finiscono in una maniera che evoca talvolta perfettamente il suono del kireji. Questa deliziosa fortuna mi ha permesso di provare a riportare i seguenti kireji in un modo accettabile in italiano:
- ca (-ka) = domanda enfatica
- ana (-kana) = solitamente fine poema, smarrimento
- eri (-keri) = esclamazione
- ano/amo(-ramu/ -ran) = probabilità
- sci (-shi) = per aggettivo, alla fine d’una sentenza
- ia (-ya) = enfatizza la parola prima, divide in due l’haiku
Ovviamente questo essere così pedante può essere evitato, ma consiglio a chi vuole cimentarsi con questa metodologia comunque di trovare uno schema corrispondente per almeno riportare le emozioni al lettore, spesso non riassumibili nelle diverse forme di interpunzione, rendendo così il metro più aderente all’originale.
Passando alla struttura metrica, abbiamo una composizione su 3 versi in una forma 5-7-5 di unità semantiche che ho precedentemente citato. All’apparenza basterebbe sostituire nel conteggio gli on con delle sillabe e usare metri classici della letteratura italiana in sostituzione (quinario e settenario), ma si pone un problema. Le unità semantiche hanno un valore molto più alto delle sillabe, non sono solamente dei gruppi di suoni, ma sono anche accenti e, talvolta, svolgono il compito degli elementi di interpunzione (punti, virgole, …). Non è un caso che gli haiku spesso compaiono scritti su un’unica linea verticale, considerando come i giapponesi hanno sempre preferito una scrittura dall’alto verso il basso almeno fino all’epoca moderna (Restaurazione Meiji).
In aggiunta, le lingue sillabiche come l’italiano necessitano di avere una forma che valorizzi l’accento delle parole per funzionare. Questo è qualcosa che la gente non comprende, specie coloro che fanno poesie. Gli accenti sono assolutamente fondamentali per il verso e senza si perde un valore enorme. Vi faccio sentire, leggete ad alta voce questi due versi:
La notte distrugge l’umore umano
La notte rompe l’umore dell’uomo
Potete contarli, sono entrambi di 11 sillabe poetiche.
La-not-te-di-strug-ge-l’u-mo-re u-ma-no
La-not-te-rom-pe-l’u-mo-re-del-l’uo-mo
Tuttavia, noterete come il secondo sia più pesante e serrato del primo, che, invece, appare più scostante. Pensate a dove cadono gli accenti e noterete che il secondo ha un accento sulle sillabe 2-4-7-10 mentre il primo nel 2-5-8-10, decisamente più scostante. Non è un caso che il primo non sia un endecasillabo, mentre il secondo sì: c’è un motivo per il quale la storia della poetica italiana abbia spinto ad una forma del genere. L’orecchio non mente. Capiamo quindi quanto sia difficile adattare una poesia così ad un genere come l’haiku, dove gli on assumo pronunce lunghe o brevi e non accenti. Aggiungiamoci che il quinario non è un metro classico della letteratura italiana come il settenario e l’endecasillabo, dato che è troppo piccolo per contenere un accento secondario fisso con agilità.
L’idea che ho sviluppato è stata di sfruttare al meglio le conoscenze sul settenario centrale come un perno per comporre il quinario. Nella fattispecie, gli accenti non facilitano il processo avendo il settenario l’accendo secondario sulla prima/seconda sillaba come il quinario. Ho così optato per spostare l’accento del settenario sulla terza sillaba. In questo modo possono essere realizzati allineamenti particolari perché il kireji cada esattamente in accordo ad una cesura ritmica se posto nel secondo verso.
Per fare una rappresentazione (“ ‘ “è l’accento, “_” è una sillaba classica, “K” è il kireji):
_ _ _ ‘ _
_ _ ‘ _ _ ‘ K
_ _ _ ‘ _
Come si può notare che si riesce a creare un ritmo costante al centro della composizione su cui costruire una base per gli altri versi che possono o meno prevedere un accento secondario per enfatizzare il kireji, a seconda che si trovino alla fine del primo, secondo o terzo verso. Questo è assolutamente difficile e serve grande capacità poetica, ma le sfide fanno parte del divertimento di questo mio folle esperimento.
Infine, parliamo della Relazione Uomo-Natura. Qui la cosa si fa interessante. La poesia occidentale è da sempre stata “antropocentrica”, da sempre incentrata su storie ed avvenimenti umani. Anche quando il cristianesimo è entrato a gamba tesa in occidente, non ci sono dubbi che l’individuo, l’uomo, è rimasto lì. Basti pensare che una delle prime poesie in “italiano” di tipo religioso è il Cantico delle Creature dove non solo la natura è antropomorfizzata (frate sole, sora luna e le stelle …) ma persino lodata in relazione all’uomo (la terra che ci nutre e mantiene, gli elementi che permettono la vita, la morte corporale che ci riconduce a Dio …). Al contrario, la poesia giapponese e più in generale la poesia orientale, è sempre stata “biocentrica” nel senso che la natura si è sempre presa il palco. Basti pensare ad alcune abitudini come la già citata osservazione dei ciliegi, la religione shinto decisamente più orientata ad una spiritualità naturale mentre i nostri erano decisamente (forse troppo) umani.
Per farla semplice, se in occidente la natura è specchio dell’uomo, in oriente è l’uomo lo specchio della natura. Una narrativa speculare, se vogliamo, ma certamente non possiamo negare, culturalmente difficile da superare. Non riesco a pensare una poesia occidentale che non segua questo paradigma e non ne risulti impacciata nel fare il contrario, se non addirittura fuori posto. Ho pertanto preso la decisione che la mia letteratura sarebbe dovuta essere antropocentrica, specialmente i miei haiku.
Invece di parlare della natura ho deciso che sarebbe stato l’uomo al centro e le sue esperienze, raffinando nel tempo le tematiche e i componimenti perché arrivassero ad affrontare il suo rapporto con la natura in una società sempre più urbana e tecnologicamente avanzata, dove la natura non parla più all’uomo con chiarezza. Questo sentimento di smarrimento, ovviamente, si proietta poi su tutto il reale e l’ho provato a rendere nelle forme del metro, anche facendo qualcosa di abbastanza radicale come rimuovendo il kigo o rappresentandolo implicitamente dal contesto o addirittura spostandolo in una stagione diversa e facendolo stridere nel contesto stesso per manifestare anche i cambiamenti climatici che di pari passo hanno accompagnato il divorzio dell’uomo dal mondo.
Una sfida dura, me ne rendo conto, ma questa è un’epoca per le grandi sfide e, in fondo, non serve molto per essere un gigante in un mondo dove tutti si fanno pigmenti.