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Sonetti

Il sonetto è il genere poetico per eccellenza della lingua italiana ed è stato usato fino allo svenimento praticamente da tutti i poeti più famosi, da Dante e Shakespeare fino a Garcia Lorca e Pasolini, ognuno con una propria interpretazione. Non potevo che provare a cimentarmi in questa forma poetica. Ho deciso di riplasmare questa forma classica, riscoprendo le versioni classiche del passato (anche quelle più rare), per poter trovare un nuovo ruolo per questo sempiterno frammento di testo dalle infinite potenzialità e dell’eterna dolcezza.

I

Il mare mi chiama a lui mormorando
e io entro dentro le trame increspate
scivolando assonnato su sbeccate
spiagge che sole stanno sospirando.

Sopra di me nubi gonfie e appestate
di bubboni e di tuoni che, strisciando
di sotto al sole, lanciano gridando
le grigie propaggini infettate.

L’acqua salata e fredda ed indurita
mi percola su corpo, collo e cuore,
mentre affiorano le alghe puzzolenti

e compare una luce inacidita
che insecchisce la pelle e incrina i denti.
Il sole cristallizza il mio dolore.

II

La Play s’è rotta, rega. Che cazzata!
Oh, zio can, l’ho comprata
sei anni fa. E’ farlocca, farlocca di sicuro
dai. Sarebbe una sfiga esagerata.
Però … quanto l’ho usata …
che ricordi che tornano … Non c’è

dubbio che fosse una scusa rodata
pur di schivarsi i compiti. Cioè,
parlo solo per me,
ma in quanti videogiochi s’è posata
la mia mano? Da FIFA dove c’è
Emenike e con se

Ibarbo e Dumbia (tre baggati, peggio
di Fallout) fino ai record di COD da fare.
Sì, ha smesso d’andare …
non c’è niente da fare per di più.

È finita nel tempo di un gorgheggio.
E, mentre penso a ciò che non c’è più,
nel mio mondo quaggiù,
divento adulto ma non so che fare …

III

Ho freddo. Le ginocchia scrocchiano
contro il vento che mi taglia il petto
con dei cocci di vetro. Tengo stretto
lo sterno, sento le ossa che tremano

sulla carne di bronzo. Che vadano
via! Spingo, mi distendo, petto retto.
Ma le mie piume sporche sprofondano
di salgemma incrostate. Non rifletto,

mi arrendo al freddo. Chiudo le ali dure
su di me. Si stempera il cielo moro.
Le piume sono pietra. No colore.

Rovesciato all’indietro. No rumore.
Senza forze. Tappato ogni mio poro.
No vita. Ali rotte. Voci oscure.

IV

Tutte le volte in cui voglio vivere
e sento le ossa sempre più pesanti,
mentre sprofondo in cuscini giganti,
ripenso a cosa mai potrei scrivere.

Ma che rima di merda … per piacere!
Cosa pensavo? FANCULO! Distanti,
irreali, finti e anche imbarazzanti,
ecco cosa! Non li voglio vedere …

Non capisco. Cosa posso fare?
Mi sento soffocare nei miei versi,
ogni parola è una prigione.

Eppure non so che cosa pensare,
perchè senza i pensieri sono persi
e si flettono in ogni direzione.

Cercare un’opinione?
Non esistono vere soluzioni,
l’umano è di sole mediazioni.

VII

Il genio è rabbioso,
è supponente, maldestro e arrogante;
è folle e divertente,
così irriverente e anche gioioso.

Il genio è incostante,
attento sognatore nebuloso
di un mondo inesistente;
vive ostinatamente, ma ambizioso.

Il genio è timido, paranoico.
Sotto la sua corazza,
vuol morta la sua razza e esser amato.

Piccola anima pazza,
titano spaventato ed ironico.
Il genio è malato.

VIII

Sento adesso schioccare
d’improvviso un pensiero
assordante e sincero
che mi va a proiettare

lo spirito su un mare
di intuizioni che spero
vedrò fuse per intero
perché possano alzare

come un monte aguzzo
una cima precisa
di apparenza salina

dove ogni spruzzo
è un’altra improvvisa
vertigine divina.

IX

Il sole sorge solo.
Quando la luna cade
sulle colline rade,
il sole sorge solo.

E quando prende il volo,
quando il cielo invade
dentro un grumo di spade,
trafigge gl’occhi al suolo.

La luna sorge in gruppo.
Con di stelle un sol velo,
coi pianeti eccitati,

la luna sorge in gruppo.
Dolci gli occhi cullati,
del firmamento fa un cielo.

X

L’organo suona riempiendo i polmoni
di un tubare multiplo di vertebre
metallizzate e muscoli di fibre
di legno tale da ardere gli amboni.

I banchi vuoti di sotto ai suoi suoni
sacri si sollevan dalle tenebre
dell’abbandono e scuote le palpebre
la volta grigia e blu piena di aloni.

L’incenso grigio sbriciola i suoi odori
in nuvole addolcite nelle messe
e si dissolve nei propri vapori.

Le arcate silenziose sopra di esse
si son distese coi loro colori
come se il turibolo le volesse.

Se la gente vedesse,
se possedessero questo torace
che in questa tenda di marmo che tace

si ricolma di pace,
se sentissero l’organo e il suo canto,
se sentissero l’incenso e il suo incanto,

la mia Chiesa e ogni santo
forse sarebbero un po’ più amati
e non sarebbero più abbandonati.

XI

Dio, strappami i polmoni, perché sento
solo l’odore del vento
che soffia da sud odoroso di sabbia,
ma non il marcire del sangue in fermento,
spillato sul mento
dal cranio del mio caporale. La pioggia

che arriva suppura il terreno del lamento
dei corpi in cemento
non più pulsanti di vita. Nella gabbia
del mio cunicolo, guardo il tormento
con occhio d’argento
ma non percepisco nè gioia nè rabbia.

Se sbatto le palpebre e inizio a pensare
comincio a ricordare
che un tempo sentivo ogni azione a portata
per quanto esaltata
ed ogni respiro era alzarmi e lottare.

Invece oggi m’alzo si e no per pisciare,
perché che puoi fare
da solo con questa mia vita tritata
che è sparigliata
del nostro egoismo che non ci lascia stare.