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Ieri non mi sono alzato, neanche il giorno prima.
Ho dormito e ho guardato il soffitto della mia camera.
Non è nulla di particolare, niente di estremamente raffinato. Sono dei tralci di vite che si arrampicano simulando una pianta reale. Molto classico, penso che fosse già qui quando mi sono trasferito e, detto sinceramente, non mi importa nemmeno chi l’avesse realizzato. È un po’ vecchiotto, si vede dal colore sbiadito, dato che più che simile al colore dell’uva più pregiata, è diventato più crema. No, non è crema, è pantone. I chicchi erano oro? Non lo so.
Il colore non sono ancora riuscito a comprenderlo, devo trovare il suo nome. Tanto non è importante.
Sono meglio i fili del tralcio.
Seguire il tratto sinuoso lungo il dorso della stanza, mentre si arrampica sulle intercapedini, fino a perderlo nel rovo degli altri tralci. Perderlo, ritrovarlo, abbandonarlo, seguirne un altro e così via. Penso di averlo fatto tante volte, ma non le ho contate. Era piacevole avere qualcosa da fare che non importa a nessuno, così nessuno può giudicarti a riguardo. Non puoi seguire “bene” un disegno, né tantomeno “male”. Per poter capire la differenza si dovrebbe una scala di valori che stabilisca dove inizi il “bene” e dove il “male”, ma se non importa a nessuno questa scala non esisterà mai.
Paradossale, non trovi?
Ci impegniamo così tanto nel fare delle cose che altri giudicano o a giudicare cose che altri fanno. Penso sia perché abbiamo paura di sbagliare. Se uno giudica se stesso, allora può sempre assolversi, ma non avrà la conferma di fare tutto “bene”. Da soli si può mascherare l’errore, ma non si può giudicare il bene, perché ci sarà sempre quella vocina che ti dirà “hai sbagliato” nel fondo del tuo orecchio. La puoi mascherare come vuoi, ma resterà là in fondo e prima poi scoppierà … se prima non lo fai tu.
Me ne sono andato dal mio lavoro.
Lo potevo fare, era nei miei diritti. Anche Luce me l’ha detto quando sono andato a parlarne. Sembrava che fosse lei quella a dovermi consolare. “Alla fine”, mi ha detto, “sei stato un eccellente revisore. Hai sempre consegnato il tuo lavoro in tempo e senza mai tanti problemi. Sei un brav’uomo, Splendente Triforno-Gmite Aghiforo, devi solo trovare la tua strada. Sono sicura che ce la potrai fare”.
Eppure io non ci credo.
Ha ragione, ma non ci credo.
Ho fallito il mio primo lavoro serio e, per quanto i miei terreni rendano, non potrò starmene con le mani in mano. Se voglio conservare i miei privilegi di famiglia, dovrò trovare un nuovo lavoro, ma chi mi dice che non troverò qualcuno a cui sto antipatico?
Dovrei sentirmi in angoscia per tutto questo, ma mi sento soltanto stanco. Stanco ed esausto. Scrivo queste parole soltanto perché il mio corpo rigetta la mia volontà di dormire e il soffitto mi ha trascinato con lo sguardo fino a questi fogli. Non ho capito con che forza sono arrivato qui.
Adesso torno a dormire. Penso di aver esaurito la mia energia.
Tutto questo avveniva in Gothra il giorno 3 dell’Ultima Pioggia, anno 569 del tempo ordinario.