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Il tempo è galantuomo, diceva mio padre.
Suppongo volesse dire che bisogna avere pazienza, che prima o poi le cose prenderanno la piega giusta, e i fatti ti daranno ragione.
A parte che questo mi sembra un segone consolatorio, non è mica vero pa’.
So di persone che hanno fatto molto male a molte altre e sono morte più vecchie di te dopo aver trascorso una vita migliore della tua, e senza pagare pegno.
Quindi dove, quando sarebbe galantuomo il tempo?
Tu dirai: …be’, il tempo non dipende da noi, ma prima o poi, se sei stato retto e onesto, questo ti sarà riconosciuto.
Già, prima o poi: quando sarò morto? E a che mi servirà?
Io non credo in nessun Aldilà nel quale possa esserci una vita eterna, men che meno se fatta di premi o punizioni uguali per sempre.
Il Paradiso degli ebrei e dei cattolici mi sembra una cosa da ebeti; quello dei musulmani è già più attraente: ma a parte la fatica di soddisfare tutte le vergini, chi può sopportare in eterno le relative suocere?
Meglio allora il Nirvana, l’assenza di movimento, di attaccamento, di volizione, di dolore e godimento: insomma il nulla totale (tra l’altro: non ne faccio questione di primato, ma mi sembra che Parmenide ci fosse arrivato prima di Siddharta).
Comunque sia: c’è molta differenza fra questo e l’essere morti e basta?
Serve tutta ‘sta meditazione per rassegnarsi all’idea?
Gli inferni poi sono tutti ugualmente truculenti, banali e noiosi (se non fosse per la compagnia, come ha già detto qualcun altro).
Inoltre: perché mai il Dio che ci avrebbe creati con tanto amore dovrebbe condannarci a un’eternità di sofferenze se ogni tanto il nostro prossimo ci sta sul cazzo, talvolta pensiamo di trombare la moglie di un altro, o bestemmiamo quando ci martelliamo un dito?
Omar Khayyam (con più garbo) osservava: “Se Tu mi dai il Paradiso per la mia ubbidienza, questa è una vendita: ma allora dov’è la Tua Grazia, dove la Tua generosità, dove il Tuo dono?”.
Va bene pa’, non è cosa che ora si possa discutere, anche perché sei morto da più di quarant’anni, e probabilmente non ci saremmo capiti neanche prima.
Ma non pensare che non mi ricordi di te, di come eri fatto, delle tue mani forti e ruvide, del tuo odore di tabacco e sudore, delle poche volte che ti ho visto piangere, delle molte altre che mi hai tenuto accanto e insegnato a lavorare, in fondo anche a vivere.
E pensandoci bene, alla fine avevi ragione anche tu: il tempo, il nostro almeno, quello che ancora ci unisce, è galantuomo.