Tempo di lettura: 5 minuti
Per evitare equivoci dirò subito che Opilio è un ragno, più precisamente un “Phalangium opilio”, secondo il Linneo.
Di passaggio: ma Linneo non aveva niente di meglio da fare che classificare tutti gli organismi viventi e dargli un nome, gettando così nello sconforto le successive generazioni di botanici e biologi?
M’immagino il tipo che andava in giro osservando e classificando tutto quel che vedeva.
Ah, tu sei un Taraxacum officinale!
Sòccia, io credevo di essere solo un soffione o un sgarblòun, al massimo un tarassaco, ma il nome che mi hai dato tu suona meglio, grazie.
Tu invece sei una Helix aspersa.
In verità io mi chiamo Gina o Gino (a seconda delle circostanze, essendo ermafrodita), ma andava bene anche lumaca e basta.
Oh guarda: un Cuscumis sativus.
Sì, sono un cetriolo, ma sto lavorando sotto copertura, come altri colleghi che circolano in casa tua.
Cosa vorresti dire?
E’ un’informazione riservata, ma puoi chiedere chiarimenti ai tuoi vicini.
E te sei una tartaruga Caretta caretta.
Due volte?
Sì, perché per la tassonomia servono almeno due nomi, e io per oggi ho esaurito quelli latini.
Va be’, dai, ora torna a casa da Sara Elisabeth, ma vai piano.
Lui invece si affrettava per registrare le catalogazioni del giorno, e trovava sua moglie una volta a letto con l’idraulico, un’altra col postino, l’altra ancora col norcino.
Dopo aver adeguatamente classificato gli ospiti (Stagnaro sinefactura, Pony express, Signo’cheffaccio, lascio?), restava il problema di classificare la moglie.
Ci pensò a lungo, anche perché i lemmi antichi (sebbene numerosi ed espressivi) a suo avviso non rendevano l’idea.
Quindi la cosa restò indefinita per alcuni anni, fino a che i ricercatori dell’Università di Napoli gli vennero in aiuto conducendo (a turno) un’approfondita indagine sul campo.
Il rapporto finale (redatto da chi aveva avuto l’ultimo) si concludeva così: “Linne’, tua moglie è ’na zoccola”.
Già, disse lui, come mi è potuta sfuggire una simile evidenza: è chiaramente una Gioiosa Teladogratis.
Ma lasciamo lo studioso ai suoi crucci, e torniamo a Opilio.
Ho già detto che è un ragno, non il Vescovo del V secolo d.C. (Sant’Opilio), che fece una figura da broccolo in una guerra contro i Goti e non sta nemmeno più sul calendario.
Non è neanche il nome di un’antica gens romana, ormai perduta nella raccolta indifferenziata della storia.
E lo posso capire.
Pensa a un giovane di questa gens: va alle terme, al foro, al mercato o all’anfiteatro, luma una bella ragazza e attacca bottone.
Ciao splendore, come ti chiami?
Ottavia Flavia Augusta Cesarea Degli Scipioni Mecenati, e tu?
Attilio Opilio.
Ah. Ci vediamo, eh?
E’ evidente che questa famiglia era destinata all’estinzione e all’oblio.
Basta divagare: ancora non hai detto niente del ragno.
Vero, ma chi l’ha detto che non si può divagare? Mica sto scrivendo un romanzo, che richiede una trama, dei personaggi ben definiti, dialoghi appropriati e una serie di altre cose complicate.
Io sto parlando del mio ragnetto a partire dal suo nome buffo (come il suo aspetto del resto), che però non è del tutto insignificante.
A parte il Vescovo sfigato e la gens esaurita, c’è anche un personaggio della mitologia greca, un tale Falance (da cui il nome Phalangium).
A dire il vero anche costui non sembra granché: intanto è menzionato sì e no di sguincio nei repertori di mitologia classica, poi pare che per la sua presunzione sia stato punito dagli dèi che lo trasformarono in un ragno.
Insomma: se “nomen omen”, il mio Opilio pare segnato da una sorte meschina.
E in effetti mi sembra un po’ pirla.
Preciso: io non uccido i ragni se non sono velenosi, e i Phalangium non lo sono.
Se ne trovo in casa li accompagno fuori, dove possono fare il loro onesto lavoro mangiando altri insetti fastidiosi.
Di solito fanno le ragnatele sui rami, sulle reti, negli angoli dei muri, comunque in posizioni strategiche.
In genere sono bellissime costruzioni, che uno si chiede: come diavolo hai fatto a fare una cosa così, piccolo come sei e con quelle zampette striminzite?
Quand’ero bambino, in campagna, con le prime brine andavo a cercare le ragnatele nei campi: sembravano ricami imperlati, luccicavano, e io già mi facevo la stessa domanda: come cavolo fate?
Poi ho saputo come e perché, ma una ragnatela ha ancora per me qualcosa di magico.
E non è l’unica cosa che ha del magico.
Prendi un aereo: tonnellate di ferraglia che volano senza battere le ali, si alzano, vanno su (e fin qui ci sta), ma poi tornano giù senza cascare come un ferro da stiro dalla finestra.
Lo so: spinta, portanza, aerodinamica eccetera, ma nel volo di questi oggetti per me c’è ancora qualcosa di portentoso, stupefacente e affascinante.
Magico, appunto.
Ho sempre amato gli aeroplani, tutto quel che vola senza essere un uccello (anche se, potendo, preferirei reincarnarmi in un passero piuttosto che in un Boeing 747).
Volare: mi è capitato poche volte di sognarlo, e me lo ricordo ancora.
Mi alzavo sbattendo le braccia proprio come se fossero ali, e con un vago senso di vertigine prendevo il vento e volteggiavo su case e campagne, abbassandomi e alzandomi con brevi e precisi movimenti delle mani.
Poi mi svegliavo. Fine. Solo un vago ricordo, e il senso di aver perduto qualcosa irrimediabilmente.
Ancora divaghi? Hai cominciato con un ragno e ora parli di aerei, voli, sogni infantili.
Hai ragione, il mio racconto non è molto lineare: ma chi ha detto che deve esserlo, e che tu devi ascoltarlo?
Be’, ho cominciato ad ascoltarlo, e penso che un racconto debba avere un inizio e una fine.
Ci sono molti racconti che hanno un inizio ma non una fine, o almeno non una sola possibile.
Vero, ma almeno hanno una loro coerenza.
E perché mai un racconto dovrebbe essere coerente?
Ogni racconto è una finzione, ed ogni finzione che si rispetti assomiglia alla verità, ma non lo è (sempre che di verità ce ne sia una sola, o almeno una alla volta).
Va be’, lasciamo stare, prosegui: eravamo arrivati al magico, prima delle ragnatele poi degli aerei.
Torniamo alle ragnatele: il mio Opilio ne ha fatta una sull’angolo in basso a sinistra del balcone di cucina.
Niente di male, ma –a parte la posizione infelice- l’ha attaccata al cestello che uso per le bottiglie vuote.
Tutte le volte che muovo il cestello lui si difende come può, agitando la ragnatela o facendo finta di essere morto.
Io cerco di non disturbarlo troppo, e non gli ho strappato nessun filo.
Ma non ho visto molti insetti nella sua tela, e da un po’ mi sembra anche dimagrito.
Per forza, scemo, ti sei messo in una posizione inadeguata: anche la mosca più stordita non passa da lì.
C’è una fine in questo racconto? No.
C’è una morale? Nemmeno.
C’è qualcosa che mi assomiglia? Sì, come in ogni finzione, in ogni apparenza.
PS: Opilio non è poi così fesso come pensavo, infatti se n’è andato.
Lasciandomi una ragnatela sgangherata, e senza salutare.
Ingrato.