Domenica 12 maggio 2024, la Chiesa Cattolica celebra l’Ascensione del Signore. Di cosa stiamo parlando e cosa ci dice il Vangelo proposto nella liturgia?
Anzitutto l’Ascensione è una Solennità posta tra la Pasqua e la Pentecoste. L’Ascensione indica quel momento in cui Gesù, risorto da morte, scompare alla vista dei suoi discepoli. La presenza di Gesù da allora è cambiata, Gesù resta presente ma in modo invisibile. Anche oggi la presenza di Gesù è reale ma invisibile, eccetto che per l’Eucarestia e la Chiesa intesa come parte visibile del corpo di Cristo. Qualcuno potrebbe avere l’idea che oggi Gesù non faccia più nulla o che si sia, in un qualche modo, indebolito. In realtà Gesù ad oggi è presente nei tabernacoli di tutto il mondo e, come detto in precedenza, la Chiesa è la parte visibile del corpo di Cristo, come suggerisce già San Paolo nella Lettera ai Colossesi: “Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa” (Col 1,18).
Il brano evangelico scelto per l’Ascensione è tratto dal Vangelo secondo Marco. Qui Gesù dà agli apostoli, rimasti in undici, le ultime direttive prima di ascendere al cielo: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15). Come ho scritto nella riflessione intitolata “La liturgia oggi”, questa direttiva Gesù è la più grande missione della Chiesa. Oggi tendiamo qualche volta a dimenticare quel coraggio e quel fuoco che ardeva nei primi cristiani, specialmente in figure come San Paolo.
Ancora una volta i discepoli di Gesù diventano di nuovo e per sempre apostoli, cioè inviati. È esattamente su questo mandato, che Gesù stesso conferisce agli Undici, che nasce e si diffonde la Chiesa, come afferma la stessa Lettera agli Efesini: “Edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù” (Ef 2,20). La doppia azione che Gesù usava anche durante il suo ministero è una “pedagogia” che ancora oggi utilizza con le nostre vocazioni: chiamare, inviare. Una vita piena non è una vita vissuta al limite, in una falsa libertà, in una relazione mai chiarita con Dio o con una persona a noi cara. Una vita piena è da ritenersi tale solo se vissuta all’interno della chiamata. I greci per indicare il verbo “chiamare” utilizzavano l’espressione “kaléo”, mentre per indicare l’aggettivo “bello” utilizzavano la parola “kalós”. C’è una radice comune tra la chiamata e la bellezza. La bellezza risiede solo nella chiamata, la quale non ci costringe a stare all’interno di una recinzione di divieti e di obblighi, ma ci spinge a scommettere continuamente sul futuro, ci fa andare avanti con coraggio, ci permette di andare al di là delle barriere di questo mondo. Nella parabola del buon pastore viene usata l’espressione “poimḗn ho kalós” che significa appunto “buon pastore”. In questo caso però kalós viene tradotto con “buono” al posto di “bello”. Ciò che è davvero bello è davvero buono, la chiamata di Dio ha una bellezza non effimera ma buona, autentica, sincera. Solo questa chiamata rende gli Undici capaci di fare ciò che hanno fatto, solo Cristo rende possibile ciò che è umanamente impossibile. Penso a Pietro, considerato pietra di scarto, diventa testata d’angolo nel momento in cui prende sul serio Gesù, nel momento in cui mette da parte il suo orgoglio.
Anche noi siamo chiamati a partire e predicare, in un mondo purtroppo ancora una volta lacerato dalla guerra, ricolmo di atti violenti e ingiusti. Ancora una volta risuona urgente la predicazione del Vangelo per riaffermare il valore della vita umana. Il mondo ha ancora bisogno di incontrare Cristo e lo può incontrare se noi lo testimoniamo. Non dobbiamo diventare santoni o guru con lo scopo di fare puro proselitismo, ma abbiamo il compito di essere testimoni di luce, quella luce del Risorto. Vorrei concludere questa breve riflessione sulla Solennità dell’Ascensione con le parole di Papa Francesco, a sua volta prese in prestito da Papa Benedetto XVI: “La Chiesa cresce per attrazione, non per proselitismo”.