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Islanda!

Tempo di lettura: 10 minuti

Era uno dei miei sogni, di quelli che fai da bambino sfogliando un atlante illustrato e non ti lasciano in pace finché non prendono corpo: vedere l’Islanda.
Dopo altri posti che nella mia agenda di pischello partivano dall’Andalusia e finivano in Amazzonia passando a zig zag per Amsterdam, la Bolivia, le piramidi d’Egitto, Cuzco, Otranto, Parigi, Petra e Tikal (Zanzibar non mi attirava, forse perché troppo in fondo all’indice), l’Islanda era ben piazzata in ordine alfabetico.
Ma per un motivo o per l’altro l’ho a lungo posticipata.
Nel frattempo mi sono occupato del resto, zampettando qua e là per il mondo, ma continuando a cullare questo sogno infantile.
E l’ho ingrassato più del dovuto, trascurando l’avvertimento di un intelligente, colto ed assai paraculo amico cileno: “non incontrare i tuoi miti se non vuoi delusioni”.
Ma a un certo punto della mia vita è venuta anche l’ora dell’isola “di ghiacciai e vulcani”.
Come? La dinamica dei fatti è molto semplice: dopo un decennio di convivenza, e raggiunta ormai la quota sociale di novant’anni in due (con me socio di maggioranza), Laura ed io abbiamo deciso di sposarci.
Il perché sono affari nostri, ed è del tutto irrilevante ai fini di questo racconto, quindi fatti bastare i dati essenziali.
Il primo è che abbiamo chiesto di monetizzare i regali e depositare il denaro presso un’agenzia di viaggi; il secondo è che parenti e amici sono stati molto generosi; il terzo è che –visto il pacco di quattrini- ci stava l’Islanda con tutte le comodità.
Anche a Laura piaceva l’idea, ed io non aspettavo altro: quindi si decise per un giro completo dell’isola con modalità “fly & drive”, e hotel già prenotati lungo il percorso.
Totalino: viaggio di nozze per sposi attempati che in condizioni diverse avrebbero dovuto fare un mutuo per raggiungere la meta, mettendo poi a stecchetto anche le gatte di casa.

Il mio amico cileno aveva ragione riguardo ai miti, ma ha omesso di dire che anche la sfiga ha il suo peso.
All’andata gli aerei erano tutti in ritardo, e i nostri bagagli si sono presi un paio di giorni di vacanza a Parigi mentre noi ci si fotteva dal freddo a Reykjavik.
Al ritorno non c’erano nemmeno i posti in aereo malgrado li avessimo pagati con mesi di anticipo, e siamo tornati di rinquarto da Firenze, dopo una ventina d’ore ore di viaggio delle quali alcune su un pulmino.

Una notazione a margine (in linea con le saghe nordiche di cui dirò in seguito): spero che il dio dei viaggiatori, se c’è, mi faccia la cortesia di procurare almeno le emorroidi ai dirigenti di quella compagnia.
In ogni caso, se dovessi incontrarne uno, mi sentirei in diritto di scannargli almeno tre pneumatici del SUV, bucargli la chiglia della barca a vela (perché certamente ne ha una), e dare a sua moglie l’elenco telefonico delle busone che senz’altro frequenta fra un’incompetenza e l’altra.

Ma trascuriamo gli aspetti circostanziali della vicenda, e diciamo che gli islandesi non sono responsabili di questi contrattempi.
Del resto però hanno colpa eccome.
Intanto spacciano la loro capitale come “energia pura”, luogo dove si possono vivere esperienze intense, sensuali, avventurose, ecc.
Sarà, ma a mio avviso c’è ben poco che valga la pena di essere visto, e quanto alle esperienze be’: non sono gay, non amo le saune né le piscine termali, e posso ubriacarmi anche a casa mia (da solo o in compagnia) senza spendere un patrimonio.

Gli alberghi sono lindi e pinti, silenziosi, con arredamento essenziale e colori pastello smorto.
Quelli della capitale con qualche pub vicino, gli altri con niente intorno: vuoi uscire a fare due passi al buio e nel nulla? Tutta vita!
Poi c’è l’enfasi sulla natura: l’unico posto al mondo con vulcani attivi in mezzo a ghiacciai perenni, un pezzo di faglia visibile da terra, i gayser, le aurore boreali, poi balene, foche, cigni, pulcinelle di mare e volatili di ogni sorta (renne importate n° 4, almeno per quanto ho visto io).
Nessun albero più alto di una betulla nana, salvo gli abeti che i ricchi piantano accanto alle loro ville.
Ma ci sono ovunque mirtilli e muschio grasso a materassi.
Certo la natura è davvero singolare da queste parti, cose che solo qui si possono vedere, compresi i colori, anche per via di un sole che non si sa bene cosa voglia fare, e quando c’è dà una luce sbieca, al neon.
Impressionanti le cascate, i soffioni d’acqua e vapore che spesso puzzano di uovo marcio, i crateri (almeno quelli che si possono vedere da vicino senza rischiare la pelle), i ghiacciai con precipizi di mille metri sul bordo dei quali è meglio non sporgersi; belli anche i fiordi, e sinceri complimenti per l’organizzazione.

Ma nell’insieme mi è parso che ‘sta gente viva in una clinica psichiatrica: bella, pulita e ben gestita, mica no, che però a me ha ispirato voglia di scappare più che altro.
Sono viziato da un’origine mediterranea (ancorché padana), ma anche scontando questo mio difetto di fabbrica mi avete deluso non poco, cari islandesi.
Vi perdono i prezzi sconsiderati perché so bene che dovete importare quasi tutto, e giustamente vi rifate sui turisti; ma non esagerate, perché vi si può anche mandare a spigolare: c’è altro da vedere al mondo, non meno bello, strano e pericoloso, ma a minor prezzo.
Della lingua non avete colpa: una specie di norreno che parlate solo voi, ottuso più del bergamasco stretto; ma devo riconoscere che insieme all’orgoglio per una lingua fossile avete avuto il buon senso di imparare almeno l’inglese.
Sappiate però che è davvero poco eufonico il vostro modo di esprimervi, e se anche qualche vostro gruppo rock ha fatto fortuna usandolo, ciò dimostra solo che gli adolescenti sono tali sotto ogni cielo: foruncolosi fuori e dentro la testa.
Tuttavia trovo simpatico il fatto che perlopiù non abbiate veri cognomi, ma suffissi al nome del padre.
A parte il casino che questo comporterebbe in un Paese più popolato, mi piace l’idea: potrei chiamarmi Sergio Riccardsson (indubbiamente più figo del pur rispettabile “Sergio di Riccardo”), e i miei figli, se li avessi, potrebbero essere Attilio Sergiosson e Cinzia Sergidottir, entrambi di Castelfrankfijordur.
Non chiamerei mai Attilio e Cinzia dei figli miei, e per evitare l’imbarazzo (questo e altri) ho scelto di non riprodurmi; poi a casa mia non ci sono fiordi, al massimo le casse d’espansione del Panaro.
Ma sono certo che i miei bimbi incuterebbero timore solo presentandosi con un cognome straniero e composito, quindi nobile e da rispettare fino a prova contraria, con euristica meno solida che servile.
Se poi il nome di un eventuale figlio mio dovesse essere Gunnar Ibn Ahmid Sergiosson Ukulele Ponomarevich (per somma di patronimici, a seguito di complesse vicende personali e sempre possibili incidenti etnici), vorrei vedere la faccia del funzionario che gli dovesse assegnare un codice fiscale in Italia.

Questa però è una divagazione: torniamo a noi, islandesi.

Quanto alle condizioni politiche ammetto volentieri che preferirei essere governato dal peggiore dei vostri conservatori piuttosto che dal migliore dei miei progressisti (e mi sembra superfluo spiegarne le ragioni).
Ma so bene che siete una Nazione con meno abitanti di un quartiere di Roma, e la democrazia è più facile quando si è in pochi, per di più in un posto dove non c’è ressa per entrare.
Siete formalmente cortesi e telegrafici, almeno coi forestieri: “buongiorno” …”’giorno”… vorrei…. “ciàpa’” ….. quanto… “un tot”… gra… “ciao”.
Non so come si svolgano le transazioni comunicative tra di voi, ma sospetto che siano ugualmente stringate, con la variante di una lingua che riesce a mettere in fila anche cinque consonanti e suppongo compri le vocali dal Brasile.
Immagino un corteggiamento: Lui , Lei <Ņǿ>, Lui ; Lei <Ņǿŏðő>; Lui .
Forse è dominante il linguaggio del corpo, ma anche in questo caso mi chiedo come facciate a riprodurvi.
Sì perché, a parte Reykjavik e Akureyri (la celebre “Capitale del Nord”: ventimila abitanti dei quali visibili sì e no una ventina, ma solo in piena stagione turistica), siete anche talmente rarefatti che è legittimo domandarsi come possiate incontrarvi.
Si possono percorrere centinaia di chilometri sulla Ring Road senza vedere nessuno: ci sono belle case sparse nel nulla e con le luci accese, fattorie qua e là, macchine agricole in mezzo ai campi, pecore con l’aria perplessa e balle di fieno, ma non si vede un’anima viva.
Dove diavolo siete, che fate tutto il giorno?
Ah, a proposito della Ring Road: salvo qualche tratto sulla costa nord-orientale, è liscia e tenuta come un biliardo.
Sempre deserta, e su entrambi i lati ci sono recinzioni di filo spinato che seguono quasi tutto il percorso.
Ora: capisco che di terra coltivabile ce n’è poca, perlopiù un po’ di qua e un po’ di là dalla strada, tra il mare freddo e le montagne ghiacciate.
Comprendo pure che abbiate un sacrosanto rispetto della proprietà privata.
Ma cazzo: non potere costringere il turista in un corridoio, con uscite solo quando e dove pare a voi.
E’ angosciante stare in mezzo a questi reticolati, fra colori e panorami che quando cominciano non finiscono più, e con la netta sensazione di essere chiusi fuori.
Percorrendo questa strada mi è tornato in mente “Dissipatio HG”.
Non so se Guido Morselli abbia mai visitato l’Islanda: credo di no, ma se l’avesse fatto penso che si sarebbe suicidato prima.
Insomma: non avete mentito sulle bellezze e particolarità dei luoghi; metto su un altro conto il fatto che siete ancora solo voi e i giapponesi a cacciare le balene, e vi mangiate pure le pulcinelle di mare dopo avermele mostrate vive come attrazione turistica.
Per non parlare di un vostro piatto tradizionale: carne di squalo macerata nella torba.
Grazie, ma la mia religione lo proibisce (e guarda male anche l’aringa affumicata).

E poi ‘sta pippa delle saghe nordiche: tutte prolisse, pressoché uguali e ugualmente truculente, un po’ come il melodramma italiano, dove se non muore qualcuno non c’è gusto (meglio se più d’uno, e male).

La saga nordica è circa così: ciao Olaf, scusa ma devo ammazzarti un fratello e due pecore perché tuo nonno ha insultato il mio.
Ma i nonni non sono andati da un pezzo?
Sì, ma sono rimasto indietro coi compiti, e se non li faccio ora che ho un po’ di tempo magari arriva la civiltà: ti spiace se mi vendico giovedì prossimo?
Giovedì avrei da fare: devo pareggiare i conti con Gunnar lo strabico.
Perché, cosa ti ha fatto?
Mi ha guardato storto.
Hai ragione, non è cosa che si possa perdonare.
Già, comunque non ti preoccupare: tu fai con comodo, e magari lasciami solo un bigliettino precisando chi hai trucidato.
Ma figurati se faccio uno scempio in casa tua senza dirti qualcosa, andiamo! Siamo nemici da una vita: ti pare che possa farti del male senza godermelo …o c’è qualcos’altro che mi nascondi?
Be’…
Dàiii!
Insomma …
Spara!
Sai, entro mercoledì dovrei anche subire la ritorsione di Thordal il Puzzone, e non so se ho abbastanza pecore.
Tutto qui? E che problema c’è: ti presto io le pecore e in cambio ti strozzo la moglie.
Davvero lo faresti?
Ma certo, figurati!
Grazie, sei un vero nemico, non so come maledirti.
Non ti preoccupare: il conto è sempre aperto, e se non ci si aiuta fra barbari …

Oddìo, vero è che se uno legge l’Antico Testamento trova l’archetipo.
Solo che i nordici, prima della conversione, non la facevano troppo lunga e non davano la colpa a Odino, al Fato o chi per lui: si scannavano per futili motivi poi cercavano di dare un senso alla cosa.

M’hai salutato male e io devo vendicarmi.
Perché?
Perché vivere in Islanda è una noia mortale, e in un posto del genere –se non c’è un’eruzione o un’epidemia- non c’è niente di interessante da fare.
Ora poi è arrivata pure la democrazia: ‘n’altra palla che lèvati.
Invece di pestarci a sangue come si deve ci rintaniamo nei pub a bere come lavandini (“energia pura!”), ed ogni tanto ne usciamo per eleggere un Parlamento o per un referendum.
Oggi il mondo intero ci ammira per la nostra compostezza, il livello di istruzione e benessere.
Poi fallisce la nostra Banca e tocca pagare i debiti.
Compostamente diciamo che non se ne parla nemmeno, ma se fossimo più numerosi e un po’ meno storditi da tanta energia potremmo invadere la Danimarca e chiedere un riscatto all’Unione Europea.

Cari islandesi: non siete poi così buoni come dite, e nemmeno simpatici come per altro non vi sforzate molto di sembrare.
Capisco che vivere “sulla schiena di un drago” non è facile, ma chi ve lo fa fare?
Vi auguro di cuore che il Laki non si risvegli e la faglia non si muova troppo, che Bjartur sia morto anche per voi, e il concerto dei pesci prima o poi abbia luogo .
Ma se mi permettete di darvi un consiglio, venite più spesso a Rimini.

Con più affetto di quanto possiate concepirne
S.C.

NOTE:

  1. Il Laki è un vulcano che nel 1783 eruttò per otto sei mesi uccidendo un terzo della popolazione e metà del bestiame, oltre a causare parecchi altri morti in Europa e una specie di era glaciale sull’intero continente.
    Bjartur è il principale (disgustoso, a mio avviso) personaggio del romanzo “Gente indipendente” dello scrittore islandese Halldòr Laxness (Nobel per la letteratura nel 1955). “Il concerto dei pesci” è un altro suo romanzo.
    Ne consiglio la lettura a chiunque voglia andare in Islanda e non tornare solo confuso, affascinato e ostile come me.

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