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La Logica di Tommaso d’Aquino (risposta ad alcune recensioni)

Premessa

Il mio libro La Logica di Tommaso d’Aquino. Dimostrazione, induzione e metafisica (eSD 2018) è stato oggetto di numerose recensioni [1], di cui due pubblicate su questa rivista e firmate da p. Sergio Parenti e Giovanni Maria de Simone [2]. I due studiosi, oltre ai molti elogi, muovono alcune serie critiche ai contenuti del volume. con queste mie brevi note vorrei rispondere proprio ad alcuni di questi rilievi, che riguardano in particolare l’oggetto della logica formale tomista (paragrafo 1), il ruolo dell’induzione (paragrafo 2) e lo sfondo metafisico su cui si colloca (paragrafo 3), al fine di chiarificare meglio il contenuto del mio volume.

Logica formale e scienze Particolari

Parenti, nel suo saggio, tende a essere molto critico verso la logica formale perché, secondo lui, questa disciplina non mi dà la scienza di una conclusione per aver scoperto (evidenza) il perché proprio, ma mi permette di controllare, specialmente quando ci sono molti passaggi da fare, la correttezza del mio ragionamento. Questo mi spiega perché, davanti ad una dimostrazione formale dell’esistenza di Dio, i logici formali possono dire che la prova è corretta (ne hanno evidenza), ma non li convince (non basta la correttezza formale) [3]. A questo rispondo che Parenti dice una cosa giusta, per quanto sia ingiusto rimproverare alla logica formale di essere logica formale. il “mestiere” del logico è infatti proprio quello di definire in generale cosa sia un enunciato, un sillogismo o una dimostrazione, e non è quello di dimostrare qualcosa di qualcosa. il logico può dire se un discorso sull’esistenza di Dio sia o meno una dimostrazione e di che tipo (propter quid o quia), ma non pretende di dimostrare che Dio c’è: questo è infatti compito del teologo. Se non si tengono distinti questi compiti, si pretende che il logico faccia il teologo e che il teologo faccia il logico, con una gran confusione di ruoli anche in altri ambiti. Il rischio di tale confusione si vede anche in un altro passaggio di Parenti, il quale tende a sovrapporre, stavolta, il ruolo del logico con quello dello studioso di geometria. Parenti si focalizza su un brano di Tommaso che dimostra che un triangolo ha gli angoli interni uguali a due retti (180°, ovvero un angolo piatto) in due soli sillogismi scientifici, che io ho riesposto in questo modo:

– Prima dimostrazione
“ogni figura contenuta in tre linee rette è una figura con gli angoli esterni uguali ai due interni opposti ogni triangolo è una figura contenuta in tre linee rette [dunque] ogni triangolo è una figura con gli angoli esterni uguali ai due interni opposti”

– Seconda dimostrazione (in cui la premessa minore è la precedente con-
clusione):
“ogni figura con gli angoli esterni uguali ai due interni opposti è una figura con gli angoli interni uguali alla somma di due retti ogni triangolo è una figura con gli angoli esterni uguali ai due esterni ogni triangolo è una figura con gli angoli interni uguali alla somma di due retti”[4].

Al proposito, Parenti ricorda (e giustamente) che in realtà la dimostrazione di Euclide è molto più complessa, e che, per esporla correttamente, andrebbe riscritta sillogisticamente in almeno sei passaggi, di cui il primo recita che:

“una linea retta che taglia linee equidistanti (parallele) produce angoli alterni fra loro uguali
La linea retta a c taglia le rette equidistanti a b e c f
Dunque l’angolo a c f è uguale all’angolo c a b“[5].

Ora, di fronte a questo rilievo, il geometra darà sicuramente ragione a Parenti, mentre il logico non entrerà nel merito geometrico, ma farà “solamente” notare che il suddetto ragionamento non è un sillogismo dimostrativo perché non ha tre soli termini (medio, soggetto e predicato; il ragionamento in questione, invece, ne contiene sei), nelle premesse i termini non sono legati dalla copula (come verbi abbiamo, infatti, ‘produce’ e ‘taglia’) e, ancora, il soggetto della conclusione (“l’angolo a c f”) non è il soggetto della minore (“La linea retta a c”)… Il punto è sempre lo stesso: la logica formale guarda appunto alla forma di un discorso, non entra nel merito della materia trattata. Quando negli Analitici secondi si dice che qui si esamina anche la “materia” del sillogismo e non la sola forma, si vuol dire che, per una dimostrazione, non basta vedere se le premesse sono universali/particolari/affermative/negative (forma e quantità degli enunciati), ma occorre anche esaminare la relazioni tra i termini (soggetto, predicato, medio), che sono appunto la materia delle premesse e della conclusione. Per questo tommaso, che qui sta parlando da logico, riespone il discorso euclideo in due soli passaggi, che sono geometricamente errati, ma logicamente adeguati, in quanto fanno vedere quello che per Tommaso è il “nocciolo” logico fondamentale di ogni dimostrazione,
ovvero che ogni “catena di dimostrazioni” deve avere come primo sillogismo della serie quello in cui la premessa minore ha come elementi il soggetto del discorso e la sua definizione (infatti “figura contenuta in tre linee rette” è la definizione di “triangolo”: ecco la materia, ovvero la relazione tra termini), da cui poi si dimostrano caratteristiche (o propri-passio: altro tipo particolare di termine) via via più remote (prima che il triangolo ha angoli esterni uguale alla somma degli interni opposti e poi che la somma degli interni è 180°). Questo al logico basta per definire una caratteristica fondamentale della dimostrazione propter quid, anche
se, per dimostrare concretamente qualcosa, in una scienza specifica ciò non basta di certo.

Induzione, realtà e verità

E del resto, se compito del logico fosse quello di elaborare dimostrazioni corrette (anziché definire cos’è una dimostrazione corretta), bisognerebbe subito buttare via buona parte della logica aristotelico-tomista, a partire proprio dal suo fondamento che è l’induzione. come noto, infatti, una dimostrazione, per essere tale (diversamente dal sillogismo, che può avere anche premesse false), deve avere, tra le altre cose, le premesse vere. Aristotele, poi, si pone anche il problema di come sia possibile fondare le premesse di una dimostrazione e, negli Analitici primi, libro ii, cap. 23[6], pone in concreto il problema di come fondare la premessa maggiore di questa dimostrazione:

“Ogni senza bile è longevo
Ogni uomo-cavallo-mulo è senza bile
Ogni uomo-cavallo-mulo è longevo”

Senza entrare troppo nel merito, una cosa tanto banale quanto poco problematizzata dagli studiosi è che in questa dimostrazione (la quale, come detto, dovrebbe avere premesse vere) la premessa minore (ma
anche la maggiore) è falsa: infatti non è vero che l’uomo non ha la bile! Dunque, se la logica studiasse le “proprietà delle cose in quanto conosciute” (come afferma Parenti a p. 372), mi chiedo: cosa mai stava conoscendo Aristo tele mentre scriveva “ogni uomo-… è longevo”? non conosceva proprio nulla, perché la frase è falsa e quindi la “dimostrazione” di cui sta cercando per induzione il fondamento non è una dimostrazione. È questa la conseguenza da trarre se si continua a intendere la logica come una disciplina che “cava fuori” contenuti veri dall’esperienza. La necessità di buttare via la logica aristotelica perché in alcuni esempi ha premesse false, non segue se, invece, si intende la logica come una disciplina appunto formale, che mira a definire determinati enti linguistici (perché tale è la dimostrazione) focalizzandosi sulla forma di un discorso, e non sul suo contenuto empirico. Se così, l’esempio di dimostrazione della longevità di certi animali, per quanto empiricamente falso, resta un esempio didatticamente e formalmente adeguato per spiegare cosa sia una dimostrazione e come funzioni l’induzione. Ora, anche su questa delicata fondazione, l’analisi di Parenti mi offre l’occasione per chiarire un altro limite comune a gran parte della scuola aristotelico-tomista sul tema induttivo. Parenti, infatti, critica la mia analisi dell’induzione perché, secondo lui, l’induzione aristotelico-tomista funziona così:

“L’esperienza ci mostra i fatti singolari, dove questa cosa x ha la
caratteristica P e la caratteristica S, mentre la cosa y ha la caratte-
ristica Q e la caratteristica S. Posso dire che qualche P è S e qual-
che Q è S. Ma non posso passare a dire “ogni”, anche qualora l’e-
sperienza mi dica, ad esempio, che ogni Q è S. i casi singolari
sono come il singolo soldato che si gira per opporre resistenza
agli inseguitori. Però il moltiplicarsi dei casi singoli aiuta la mia
attenzione ad inquadrare le due caratteristiche immediatamente
connesse. Ad esempio vedo che i Q sono sempre anche M ed
anche quei P che sono S sono sempre anche loro M. E se l’atten-
zione coglie una connessione immediata tra le caratteristiche
248 c. a. testigiuste, nell’esempio tra M ed S, allora passiamo all’universale
,
proprio come nell’immagine dell’esercito in fuga” [7].

Il lungo brano afferma, nella sostanza, questa situazione in cui, per una serie crescente di x e y, si esperisce che:

x è P e x è S, per cui si può affermare che “qualche P è S”
y è Q e y è S, per cui si può affermare che “qualche Q è S”

Infatti, correttamente Parenti rimarca che, esperiti alcuni x e y, non si può dire che “ogni P è S” o “ogni Q è S” perché non ho esaminato tutti i P e i Q. Lo potrei fare solo nel caso in cui avessi fatto un’induzione completa che appunto esamina tutti i P. Il testo di Parenti continua con questo ulteriore ragionamento in cui ipotizza che si esperiscano degli x e y tali che:

x è M
y è M

Ipotizziamo, poi, che anche questa connessione tra gli x e gli y, che a questo punto sono sia S (supra) che M, sia via via confermata dall’esperienza. A questo punto, come sopra, si potrebbe solo dire che “qualche S è M” (tali sono quegli x e y che sono S e M): nulla vieta, infatti, che nel futuro si esperiscano degli S che non sono M. Qui, però, Parenti dice che, “se l’attenzione coglie una connessione immediata tra caratteristiche giuste, nell’esempio tra M e S, allora passiamo all’universale”, per cui possiamo dire che

ogni S è M

Ora, il punto problematico è che questo è un discorso tautologico, una sorta di petizione di principio. Si dice in pratica: se vedo che tra S e M la connessione è immediata, e quindi vale sempre, allora vale sempre. È come dire, “se vedo che S è sempre connesso a M, allora S è sempre connesso a M”. Ma il problema induttivo è appunto questo: fondare il motivo per cui questa connessione vale sempre! Ecco che, se si vuole uscire da questa petizione di principio, l’impostazione del problema induttivo va completamente rivista. La mia proposta sostanzialmente consiste nel definire S tramite una definitio fatta da genere più differenza specifica (G+D) a cui si possono sempre aggiungere differenze specifiche, in modo da “circoscrivere” l’ampiezza di S nel caso in cui si trovi un caso di un individuo con tutte le caratteristiche degli S ma che non ha M. Riportando l’esempio guida nel mio libro, ricordo che, per Tommaso, ogni uomo ha la proprietà di essere capace di ridere: l’uomo infatti, avendo un conoscenza progressiva, ride al termine di una barzelletta, cosa, questa, che non avviene né per gli altri animali (che, non essendo razionali, non la capiscono) né per Dio (che, essendo onnisciente, sa già come va a finire). Definendo la risibilità come “capacità di essere sorpreso senza danno tipica degli animali razionali”, si può riesporre questo ragionamento tramite questa dimostrazione:

“Ogni animale razionale è capace di essere sorpreso senza danno al modo dell’animale razionale
Ogni uomo è animale razionale
Ogni uomo è capace di essere sorpreso senza danno al modo dell’animale razionale.”

Ora, ipotizziamo che l’esperienza ci faccia incontrare un extraterrestre che risulta essere senziente (è animale) e razionale (parla e fa calcoli, e anzi ha due teste), ma risulta incapace di ridere. Questo farebbe crollare la mia dimostrazione perché “falsificherebbe” la mia dimostrazione in quanto non è più vera la conclusione, essendo falsa la premessa “ogni animale razionale è capace di essere sorpreso al modo dell’animale razionale”. Nella mia lettura tomista, invece, non accade nulla di così drammatico, anzi! Questo fatto ci muoverebbe solo a indagare meglio la radice della risibilità e ci potrebbe portare a scoprire che, per avere questa proprietà, occorre avere una sola testa in cui emozioni e sentimenti convivono. E qui entra in gioco la procedura induttiva (che non posso riassumere per motivi di spazio) e l’inesauribilità della definitio, la quale ci permette di:

– ridefinire l’uomo come animale razionale monocefalo
– e, di conseguenza, riscrivere la suddetta dimostrazione alla luce della nuova differenza, ovvero:

Ogni animale razionale monocefalo è capace di essere sorpreso senza danno al modo dell’animale razionale monocefalo
Ogni uomo è animale razionale monocefalo
Ogni uomo è capace di essere sorpreso senza danno al modo dell’animale razionale monocefalo

Questa mia proposta di soluzione è però criticata da Parenti perché, a suo modo di vedere, può mettere in crisi la certezza della scienza, e quindi aprirsi al relativismo del “fino ad ora”:

“Personalmente mi sembra che questo [il poter sempre aggiungere
differenze specifiche alla definitio] crei difficoltà con quanto espo-
sto in precedenza se l’attribuiamo all’episteme, soprattutto a pro-
posito della successione immediata dei media della dimostrazione,
che non tollera ulteriori mediazioni, che sono poi le definizioni del
soggetto della conclusione e della proprietà da dimostrare, per cui
la catena dei media, dei “perché propri” non solo non può essere
infinita e nemmeno circolare, ma deve essere compatta (condensatio:
non ci sono media da aggiungere fra un medium e l’altro: cfr. pag.
157). testi cerca di evitare questa obiezione con la distinzione:
non può essere infinita in atto, ma può esserlo in potenza (pag.
154, primo capoverso). il mio parere è che allora finisce l’eviden-
za del “sapere perché”, in favore di un “fino ad ora” “[8].

A questo rispondo che è proprio il realismo che esige, per essere tale, che qualcosa sia vero “fino ad ora”! Se infatti si potesse arrivare a determinare (ad esempio, con la succitata “intuizione”) che vi è un nesso immediato tra S e M (ad esempio, tra l’essere animale razionale e la risibilità), allora non avrei più bisogno di “esaminare” nella realtà altri S, ovvero non avrei più bisogno di “guardare” la realtà complessa degli uomini. Sotto l’ipotesi di Parenti, non mi servirebbero più nuove esperienze, le quali non mi insegnerebbero più nulla sugli animali razionali e il loro nesso con la risibilità, dato che sono sicuro che il nesso che ho “indotto” vale sempre, per cui guadare a nuovi uomini diviene una perdita di tempo. invece, solo se si ammette che la conoscenza del reale è inesauribile sul piano delle determinazioni essenziali, si “fonderà” la necessità di continuare a “guardare” i concreti enti esistenti. Per ottenere questo risultato realmente realista, sul piano logico è quindi necessario ammettere come “assioma” che in una definizione si possono aggiungere differenze specifiche all’infinito. A questo punto, però, si può (anzi, si deve) porre un quesito di natura metafisica, ovvero: qual è il fondamento di questa inesauribilità? È qui che la distinzione tra atto d’essere e essenza di un ente ci viene in aiuto. Se l’atto d’essere di un ente non è l’essenza di quell’ente, si ha che l’atto di esistere di quell’animale razionale non è ‘ciò che è’ quel singolo ente (non è la sua essenza), così come l’essere di Socrate non è ciò che è Socrate (ovvero animale-razionale). Per cui noi, per quanto aggiungiamo differenze specifiche essenziali, non capiremo mai definitivamente un ente perché, appunto, l’ente non è solo la sua essenza. Questo non vuol dire che la nostra conoscenza sia falsa: l’uomo Socrate è veramente animale razionale! Vuol solo dire che ci illudiamo se pensiamo che, una volta capito che l’uomo è “animale razionale”, allora abbiamo capito tutto dell’uomo. Per questo, può darsi che nuove esperienze ci facciano scoprire nuove caratteristiche essenziali: è l’esempio fittizio di quell’extraterrestre animale-razionale che, però, non ha la capacità di ridere in quanto ha due teste, e ci fa capire così che, per gli esseri umani, è essenziale avere una sola testa.

Logica e metafisica

È proprio su questo piano più metafisico che si muove la recensione di Giovanni Maria de Simone. circa la inesauribilità di determinazioni essenziali che ci può manifestare ogni singolo ente, egli infatti precisa che la singolarità (inesauribile) riguarda anche gli enti immateriali[9]. Io non avevo esplicitamente sottolineato la cosa, che mi trova del tutto concorde e che, anzi, fortifica la mia lettura. Sempre sul piano metafisico-teologico, de Simone critica la mia tesi secondo cui essere-pensiero-linguaggio sono orizzonti equiestensivi (e onnipervasivi). Nel mio volume io affermo che

non bisogna tuttavia raffigurarsi le parole, i pensieri e le cose
come mondi separati, quasi fossero tre sfere separate. infatti:
– essere qualcosa di separato dall’essere è impossibile: e quindi
anche pensiero e linguaggio, poiché sono qualcosa, sono in qual-
che modo nell’essere;
– pensare a qualcosa separato dal pensare è impossibile: e quindi
anche essere e linguaggio, poiché sono pensati, sono in qualche
modo nel pensiero;
– dire qualcosa di separato dal dire è impossibile: e quindi anche
essere e pensiero, poiché sono detti, sono in qualche modo nel
linguaggio[10].

In merito, egli sostiene che questo ragionamento è fallace perché varrebbe anche per lo scrivere e il vedere. Infatti, per lui,

scrivere qualcosa di separato dallo scrivere è impossibile: e
quindi anche essere, pensiero e dizione, poiché sono scritti, sono
anche in qualche modo nello scrivere.
Proseguendo, potrei anche affermare che
– vedere sensibilmente con gli occhi qualcosa di separato dal
vedere sensibilmente con gli occhi è impossibile; e quindi anche
essere, pensiero, parole e scritti, in quanto sono visti, sono in
qualche modo nel vedere sensibilmente con gli occhi[11].

Al rilievo, che in ogni caso reputo utile perché la tesi si poteva esprimere meglio, rispondo che non è vero che “essere pensiero e dizione… sono scritti” o “visti”. certo, posso scrivere la parola “pensiero”, ma la parola “pensiero” è ben diversa dal pensiero. con l’essere, invece, la tesi “funziona”: il pensiero non è “fuori” dall’essere perché è proprio il pensiero (e non la parola “pensiero”) che in qualche modo “è”, per cui è nell’essere; e viceversa, è proprio l’essere (e non la parola “essere”) a essere pensato quando è detto, per cui non è fuori dal pensiero e dal linguaggio, ma è in loro. Allo stesso modo posso vedere con il senso della vista “un essere” sensibile, che però non è certo l’essere; tantomeno posso vedere un pensiero (mentre veramente l’essere è pensato per cui è nel pensiero, e il pensare è qualcosa per cui è nell’essere). Per essere ancor più chiari:
– che ci sia qualcosa che sia fuori dall’essere è impossibile, perché questo qualcosa in qualche modo è, mentre è possibile che ci sia qualcosa fuori dal vedere (ad esempio l’olfatto)
– pensare che qualcosa sia fuori dal pensiero è impossibile, perché lo si sta pensando, mentre è possibile pensare che qualcosa sia fuori dal vedere;
– dire che qualcosa sia fuori dal dire è impossibile, perché lo si sta dicendo, mentre è possibile dire che qualcosa sia fuori dal vedere.
Alla fine della recensione di de Simone, si trovano poi interessanti rilievi circa la conoscenza dei singolari (suppositi), sui quali vengono posti due quesiti:

“A questo punto, però, mi paiono sorgere due interrogativi:
– Se vi è un qualche infinito (anche solo potenziale) nel procede-
re della conoscenza del soggetto, da dove viene?
– La conoscenza del supposito potrà mai essere esaurita?[12].”

Alla prima domanda credo di aver già risposto sopra: l’ente non è solo un’essenza, ma è un soggetto (id) con un’essenza (quod) che esiste (est). Per rispondere più nel dettaglio, avanzo questo esempio matematico legato ai numeri ordinali. intuitivamente, se ho un insieme di oggetti ordinati, posso assegnare a ognuno un numero in base al posto che occupa nella serie: ad esempio, se tizio, caio e Sempronio hanno rispettivamente 15, 18 e 25 anni, l’insieme {tizio, caio e Sempronio} si può vedere come un insieme di 3 elementi ordinati i cui posti sono rispettivamente {0°, 1°, 2°}, e come tale è di un tipo ordinale simile a quello dell’insieme di tre materiali ordinati a preziosità crescente: {mirra, incenso, oro}. i due insiemi hanno lo stesso numero ordinale 3°. In questa rappresentazione si parte dallo 0 perché è facile formulare una legge per la quale il numero ordinale finito n° si rappresenta con il tratto inziale degli ordinali che vanno da 0 a n°-1, per cui 3° si rappresenta con

{0°, 1°, 2°}

Il numero ordinale 3° si potrebbe aggiungere alla serie e ottenere questo insieme di ordinali che ha come ordinale il 4°:

{0°, 1°, 2°, 3°}

… e via dicendo. ora, se pensiamo ai numeri ordinali come successive differenze specifiche (ad esempio: animale, razionale, monocefalo…) aggiunte al genere inziale 0° (animale), abbiamo che, se l’ente fosse solo “faccenda” di determinazioni essenziali ottenute una dopo l’altra, allora la sua essenza sarebbe finitamente conoscibile, perché a un certo punto n si arriverà alla fine della serie (1°, 2°, 3°, …, n°). Ma dopo che si raggiunge l’ultima differenza n°, le nuove esperienze di nuovi individui con quell’essenza non potranno dirmi nulla di nuovo su questa essenza, e quindi non serviranno ad accrescere la mia conoscenza. Se “razionale” fosse l’ultima differenza nella definizione dell’essenza di “uomo” (che era appunto “animale razionale”), le esperienze di nuovi individui non mi diranno mai nulla di nuovo in merito all’essenza, ma, al massimo, mi confermeranno quanto già so. Se faccio così per cercare di capire meglio l’essenza dell’umanità, potrei tranquillamente smettere di osservare la realtà, ovvero nuovi esseri umani. Questa prospettiva, che vanifica il realismo tomista, si può però evitare se si ammette che le differenze specifiche sono infinite. ovvero:

{0°, 1°, 2°, 3°, …}

Ma per avere un insieme fatto di infinite differenze ordinate, occorre ammettere un numero ordinale w° che ordina questa serie, ovvero che dà forma a questa serie, ma che non è come gli altri numeri ordinali perché è irraggiungibile per addizione (la quale arriva sempre a un numero finito): è quindi un ordinale limite. Questo w potrebbe quindi rappresentare l’atto d’essere, in quanto forma (ordinale) particolare che non si raggiunge mai per addizione. Allora, se {0°, 1°, 2°, 3°, …} rappresenta la dimensione essenziale di un ente, per rappresentare matematicamente l’ente in senso tomista, il quale è costituito anche dall’atto d’essere, questo andrà aggiunto al termine delle serie:

{0°, 1°, 2°, 3°, …, w°}

Questo insieme di ordinali, che è il numero ordinale w°+1 (si veda sopra: l’insieme infatti “termina” con l’ordinale w°, che è appunto w°+1 – 1), è così una buona rappresentazione della struttura dell’ente finito, composto da infinite differenze specifiche (gli ordinali finiti) più un atto d’essere che termina (dunque in-forma) la serie, ma che non si raggiungerà mai per addizione di forme specifiche. Questa struttura ontologico-matematica garantisce che la mia esperienza di nuovi animali razionali non sarà mai vana, in quanto mi potrebbe far capire meglio l’essenza dei medesimi. nel nostro esempio, l’animale razionale extraterrestre bicefalo mi fa capire che una caratteristica importante dell’uomo è essere monocefalo. in altri termini noi, almeno in questa vita, siamo nella condizione di conoscere le essenze degli enti una dopo l’altra (scienza acquisita per addizione), ma non arriveremo mai alla fine di questa serie perché l’ente ha un qualcosa (w) che meglio si conosce più si aggiungono differenze ma mai si raggiunge aggiungendo differenze. Che poi nell’altra vita potremo o meno conoscere tutte le differenze tramite un diverso tipo di scienza (infusa o divina che sia), potrebbe pure darsi (cfr. de Simone, p. 287): ma nell’altra vita, vedendo noi Dio “faccia a faccia” (qualunque cosa voglia dire questa frase), non avremo più bisogno (né voglia) di fare nuove esperienze empiriche di enti finiti. co me dicevo prima a Parenti: solo se si ammette l’incompletezza strutturale (ovvero mai completabile, ma infinitamente accrescibile) di una definizione, si può fondare il realismo, ovvero l’interesse per la realtà concreta che ci circonda, la cui ricchezza non sarà mai esaurita da una definizione fissata per sempre.

Note

[1] M. Schoepfln, La logica (sempre attuale) dell’Aquinate, in «L’osservatore Romano»,
del 21/2/2019, p. 2; G. PiLi, La Logica di Tommaso d’Aquino, in «Scuola filosofica»,
https://www.scuolafilosofica.com/7714/la-logica-di-tommaso-daquino-claudio-testi;
A. Virgili, Imparare la logica alla scuola di Tommaso, in «La croce», del
14/3/2019, p. 1; J. J. Sanguineti, Recensione a “La Logica di Tommaso d’Aquino”,
in «Acta Philosophica», ii, 28, 2019, pp. 382-385; A. Valenti, Sulla logica del
Dottore Angelico, in «Studi cattolici» n. 711, Maggio 2020, p. 395.
[2] G. M. De Simone, Recensione a La Logica di Tommaso d’Aquino, in «Divus
thomas», Gennaio-Aprile 2020, pp. 270-287; S. Parenti, La logica di Tommaso
d’Aquino: una nota critica, in «Divus thomas», Settembre-Dicembre 2021,
pp. 314-379.
[3] Parenti, La logica di Tommaso d’Aquino: una nota critica, p. 327.
[4] cfr. Testi, La logica di Tommaso d’Aquino, p. 114.
[5] Parenti, La logica di Tommaso d’Aquino: una nota critica, p. 337.
[6] cfr. Testi, La Logica di Tommaso d’Aquino, pp. 192 ss.
[7] Parenti, La logica di Tommaso d’Aquino: una nota critica, p. 364, corsivi aggiunti.
[8] Parenti, La logica di Tommaso d’Aquino: una nota critica, p. 375.
[9] De Simone, Recensione a La Logica di Tommaso d’Aquino, p. 274, ove cita Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, Lib 2 c. 75 n. 10.
[10] Testi, La Logica di Tommaso d’Aquino, pp. 21-22.
[11] De Simone, Recensione a La Logica di Tommaso d’Aquino, p. 272, enfasi aggiunte.
[12] De Simone, Recensione a La Logica di Tommaso d’Aquino, p. 286.