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Quale teologia per la terra di mezzo di J.R.R. Tolkien?

Tempo di lettura: 40 minuti

Premessa

Per quanto Tolkien affermi esplicitamente di non essere un metafisico [1], tanto da non citare mai tra le sue fonti (né nelle sue opere, né nei suoi scritti privati) alcun filosofo o teologo, è tuttavia indubbio che la sua narrazioni contenga, sebbene in modo non “sistematico”, profondi contenuti teologici [2]. Non a caso, fin dalla sua pubblicazione nel 1954, i critici e il pubblico si sono chiesti se Il Signore degli Anelli sia un racconto dal sapore fondamentalmente pagano o un’opera essenzialmente cristiana; e la querelle è continuata all’estero per oltre cinquant’anni fino ai giorni nostri [3].

Anche in Italia [4] si sono avuti confronti interessanti su tematiche affini [5], l’ultimo dei quali è stato un importante dibattito – prima in un convegno, poi pubblicato negli atti [6] – tra Andrea Monda e Wu Ming 4, che considero tra i massimi studiosi italiani dell’opera tolkieniana. Questo “nobile duello” è stato recensito anche da Gianfranco De Turris il quale ha affermato, in modo sorprendente, visto al distanza “politica” rispetto a Wu Ming 4, una certa “preferenza” per la lettura di quest’ultimo:

«Allora Wu Ming ha completamente torto? No, a parere di Gianfranco de Turris,
massimo esperto in Italia della materia: “Nell’opera di Tolkien ci sono elementi
pagani quanto cristiani. L’autore stesso negò che Frodo fosse una figura cristica.
Il Signore degli Anelli può essere interpretato come romanzo non esclusivamente
cattolico [come propone Wu Ming 4, contra Monda]. Purché non si esageri”»[7].

È proprio da questa serie di discussioni – e da molti scambi epistolari con vari critici italiani ed esteri – che ho maturato una convinzione: la vexata quaestio sul Tolkien Cristiano o Pagano è sempre stata “mal impostata”. Ovvero, sia i sostenitori dell’una e dell’altra tesi hanno sempre ragionato all’interno di una prospettiva critica che – considerando antitetici i termini “pagano” e “cristiano” – in realtà faceva perdere il proprium dell’opera tolkieniana.

Ecco dunque che con questo studio vorrei:

– prima, analizzare schematicamente i limiti sia della tesi “l’opera di Tolkien è cristiana” [2], sia della sua antitesi “l’opera di Tolkien è pagana” [3];
– quindi proporre un approccio interpretativo capace di offrire un punto di vista sintetico maggiormente esplicativo rispetto al tema in questione e capace di mostrare tutta la grandezza di questo scrittore (4-6).

Il presente studio non vuole esser in alcun modo “polemico” e quindi citerò gli autori esaminati col solo intento di poter dare un positivo contributo critico: sono infatti sempre più convinto che la relazione paganicità/cristianesimo sia uno degli snodi essenziali per comprendere tutta l’opera del Professore di Oxford.

Prima di addentrarmi nell’analisi è opportuno rimarcare che il soggetto dell’indagine non è l’individuo Tolkien[8] bensì la sua opera, e in particolare il suo Legendarium, ovvero l’insieme degli scritti che riguardano le vicende della Terra di Mezzo.

Inoltre, intenderò qui il termine “pagano” come estendibile a «tutti coloro che sono estranei alle alleanze di Abramo e di Gesù»[9], ovvero a tutti coloro che non sono Ebrei, Cristiani o Musulmani [10] (di ogni epoca e confessione) i quali credono seppur con diverso “grado” nella Bibbia. In quest’ottica sono da considerarsi pagani tutti i contenuti culturali e religiosi della cosiddetta “religione naturale” o “cosmica” [11], che sono accessibili all’uomo senza esplicite rivelazioni soprannaturali.

La tesi: l’opera di Tolkien è cristiana

Secondo questa prospettiva il Legendarium tolkieniano viene visto come un universo di valori esplicitamente cristiano. In tale ottica, a livello internazionale, l’autore più “radicale” è sicuramente Joseph Pearce [12] che è diventato il riferimento per molti altri studiosi sia cattolici (Strattford Caldecott [13], Peter Kreeft [14], John West Jr. [15]) che di altre confessioni cristiane (Ralph Wood16, Nils Agøy [17]). In Italia vi è un nutrito gruppo di critici che si è attestato su posizioni simili, a partire da Guido Sommavilla [18] fino ad arrivare, come già ricordato, ad Andrea Monda [19], il più autorevole studioso di questa corrente interpretativa. Una simile lettura va però incontro a quattro limiti principali:

A) Viola il “rasoio di Tolkien”. Per Tolkien, infatti, difetto principale del ciclo arturiano è che questo «sotto l’aspetto della “fiaba” è troppo esagerato e fantastico, incoerente e ripetitivo. E dall’altro, cosa più importante, è legato alla religione cristiana e ne parla esplicitamente. Per motivi che non starò qui a spiegare, questo mi sembra fatale»[20]. Lo stesso “rasoio” è usato da Tolkien nella scrittura del Signore degli Anelli, come ci racconta egli stesso:

«Io sono comunque un cristiano; ma la Terza Età [in cui è ambientato il roman-
zo] non era un mondo cristiano»21. «Non mi sento in obbligo di far combaciare
la mia storia con la teologia cristiana ufficiale»22; «[…] ho intenzionalmente
scritto un racconto costruito su certe idee “religiose”, ma che non è un’allego-
ria di queste (o di qualcosa d’altro), e non le cita apertamente, meno ancora
le diffonde»[23].

In base a queste affermazioni, è sbagliato considerare il Legendarium una mitologia cristiana, o un’epica cristologica:

«Adesso però, alla fine dei nostri dieci percorsi nell’epica contemporanea [tra i
quali vi è anche l’opera di Tolkien] è forse possibile osare stringere il termine,
specificandolo ulteriormente come epica precisamente “cristologica”»[24].


Questo infatti significherebbe far entrare nella sub-creazione delle verità esplicitamente cristiane, il che distruggerebbe fatalmente l’incantesimo della narrazione fantastica.

B) Confonde l’interpretazione con l’applicazione o la scoperta di significati allegorici nascosti. Tolkien distingue tre concetti che non vanno in alcun modo confusi: allegoria (che Tolkien rifiuta per le sue opere, prive di rimandi nascosti), applicabilità (legittima per ogni lettore) e interpretazione:

«Penso che molti confondano “applicabilità” con “allegoria” [distinzione tra al-
legoria e applicabilità]; l’una però risiede nella libertà del lettore, e l’altra nell’in-
tenzionale imposizione dello scrittore»25. «Sono sconcertato, e a volte irritato, da
molte delle domande sulle “fonti” della nomenclatura e dalle teorie o fantasie che
riguardano riferimenti nascosti. Mi sembrano solamente un divertimento del tutto
personale, e in quanto tale io non ho il diritto o il potere di criticarle, benché siano,
penso, prive di significato per una delucidazione o un’interpretazione dei miei
racconti [distinzione tra riferimenti allegorici nascosti e interpretazione]» [26].

Alla luce di queste distinzioni il lettore cristiano ha tutto il diritto di “applicare” il Signore degli Anelli al Vangelo, per ricavarne esempi didattici di comportamenti virtuosi. Ma proporre questo come un’“interpretazione” sarebbe un errore visto che, prima di tutto, Il Signore degli Anelli «non tratta di niente se non di sé stesso» [27]. Andrea Monda nel suo pregevole testo L’Anello e la Croce, è da un lato consapevole di queste distinzioni, tanto che mette in appendice alcune sue riflessioni circa la modalità di “applicare” Il Signore degli Anelli all’insegnamento della religione cattolica. Dall’altro però, anche se di sfuggita e in maniera non sistematica, tende a “investire” queste applicazioni anche di uno spessore interpretativo:

«Io, con la mia lettura di Tolkien, da una parte non intendo esaurire tutte le pos-
sibili letture e interpretazioni di Tolkien, dall’altra però non posso negare a me
stesso innanzitutto che io trovo in questo romanzo una ricchissima potenza sim-
bolica che mi arricchisce non solo come lettore ma anche come cattolico. Non
voglio quindi essere esauriente ma dipanare tutto quel simbolismo cattolico che
trovo nelle pagine del romanzo» [28].

Dipanare quel simbolismo è certo legittimo come una possibile applicazione, ma non come interpretazione del testo che, in quanto tale, deve basarsi su “logiche” interne al testo stesso. Limitandoci al diffusissimo parallelo Frodo/Cristo [29] non si può trovare un solo testo di Tolkien che avvalli questi “riferimenti nascosti”. Quello che Tolkien afferma è solo che Frodo esemplifica una «situazione sacrificale» [30], ispirata al “non indurci in tentazione” del Pater Noster, quindi analoga a quella di Cristo, ma a cui in nessun modo rimanda implicitamente. Il Mezzuomo infatti, diversamente dal Figlio di Dio, non è senza peccato tanto che vive come un fallimento [31] il non esser riuscito a gettare l’Anello nel Monte Fato, e quindi il non poter tornare come
un eroe [32]: questo avvelena la sua anima e il suo fisico, anche per la ferita della lama Morgul, così che gli risulta impossibile una vita “felice e contenta” nella Contea che, come egli ci dice «è stata salvata ma non per me» [33]. Egli è dunque una figura tragica, che deve lasciare i suoi amici per poter andare in Eressea, che nulla ha a che vedere con il Paradiso [34]: si tratta invece di un soggiorno “purgatoriale” in un’isola sita di fronte a Valinor [35] in cui egli potrà forse guarire dall’ombra che lo affligge, e nessuno sa se questa possibilità datagli dai Valar avrà o meno esito positivo.

C) Confonde una fonte con una rappresentazione. Un errore simile negli esiti, ma diverso nelle motivazioni, è quello di scambiare una fonte per una rappresentazione. Non vi sono dubbi sul fatto che le fonti del Legendarium siano anche cristiane oltre che pagane, ma i personaggi che Tolkien subcrea sono un “misto” non più analizzabile, che quindi non possono essere in alcun modo considerati una “rappresentazione” di una delle loro fonti. Come egli spiega in Sulle Fiabe, la mitopoiesi è simile a un calderone [36] nel quale si immergono le “ossa” ovvero le fonti più o meno storiche da cui si originano i miti [37], e nuovi ingredienti, che indicano le diverse rielaborazioni dei miti [38], ma che alla fine dà come risultato una minestra – ovvero un nuovo racconto – che non può ridursi alla somma dei suoi elementi, difficilmente rintracciabili e in ogni caso inutili per gustare la nuova storia, per cui: «dobbiamo accontentarci della minestra ammannita, rinunciando a vedere le ossa del bue che sono servite a prepararla» [39].

L’esempio più frequente è il considerare Galadriel come una sorta di prefigurazione di Maria: la Vergine – così come la dama Morrigan delle favole gallesi [40], Circe, Medea [41], la Donna Eterna di Haggard [42] o le magiche principessa di MacDonald [43] – è sicuramente tra le fonti di Galadriel, ma Galadriel non si può considerare una rappresentazione di Maria, come afferma ad esempio Caldecott:

«È questa la figura di Maria [dipinta nello splendido Wilton Dypict] che Tol-
kien aveva sempre presente, che era al centro del suo immaginario […]. Ciò che
Elbereth, Galadriel e altri personaggi come Lúthien e Arwen rappresentano di
sicuro è esattamente ciò che Tolkien disse di aver trovato in Maria: la “bellezza
sia come maestà che come semplicità”»[44].

A supporto di questo parallelo viene spesso citata la lettera in cui Tolkien risponde all’amico gesuita Robert Murray, in cui afferma:

«Penso di sapere esattamente che cosa intendi con dottrina della Grazia; e na-
turalmente con il tuo riferimento a Nostra Signora, su cui si basa tutta la mia
piccola percezione di bellezza sia come maestà sia come semplicità»[45].

Tuttavia in questa lettera Tolkien non ammette alcun parallelo, ma solo che Maria è tra le fonti della sua concezione estetica. Del resto, come afferma ancora Tolkien nel 1971[46], Galadriel nella Terra di Mezzo stava facendo penitenza avendo seguito Fëanor nella ribellione ai Valar e nel massacro dei Teleri: era dunque tutt’altro che “immacolata” quando venne pubblicato Il Signore degli Anelli. Diventa tale solo nel 1973[47], in base a un appunto di Tolkien scritto poco prima di morire in cui la Dama Elfica si oppone a Fëanor[48]; il che non basta in ogni caso per fondare la rappresentazione Galadriel/Maria.

Stessi discorsi vanno fatti per tanti altri personaggi: tra le fonti di Earendel vi è il poema medievale Crist, ma il mezzelfo non rappresenta Cristo; similmente, il lembas può in parte essere ispirato all’Eucarestia, ma non per questo la rappresenta.


D) Da una similitudine parziale deduce una identità totale, ignorando le differenze. Molti di questi autori da un lato ravvisano giustamente delle similitudini tra parti del Legendarium e alcuni contenuti scritturistici e rivelati: da questo però deducono l’identità cristiana dell’opera. Ad esempio, dalle similitudini stilistiche e contenutistiche tra la Musica degli Ainur e la Genesi deducono che la Musica degli Ainur è cristiana[49]. Ma affermare un tale rigido parallelismo non può spiegare le rilevanti differenze che esistono tra le due teologie, che tendono ad essere attenuate. Ad esempio Greta Bertani, nel suo recente e documentato volume, afferma che come «nella cosmogonia Tolkieniana, nel cristianesimo il male entra nel mondo a causa della caduta di un angelo, il migliore»[50]. Questo è invece un punto sul quale Tolkien stesso afferma una differenza tra la sua mitologia, nella quale il mondo fin dal primo istante della sua creazione è affetto dal male (per cui il male non vi può entrare perché c’è già), e quella cristiana dove il male entra solo dopo la caduta dell’uomo)[51].

3 L’antitesi: l’opera di Tolkien è pagana

Altri autori, pur senza negare totalmente l’importanza di elementi cristiani nella formazione del Legendarium, affermano però che lo si deve leggere in una prospettiva essenzialmente pagana, la quale si oppone alla ortodossa visione Evangelica della vita e della storia. All’estero le posizioni variano da approcci molto radicali (Catherine Madsen [52]), ad altre più moderate (Ronald Hutton [53], Stephen Murillo [54]) fino a letture ambientaliste-politeiste (Patrick Curry [55]).

In Italia l’interpretazione “pagana” più nota è sicuramente la lettura “simbolico-tradizionale” iniziata da Elemire Zolla e oggi portata avanti da un gruppo di studiosi il più noto dei quali è Gianfranco De Turris. Molto più recenti sono invece i pregevolissimi studi di Wu Ming 4[56], la cui lettura per certi esiti si avvicina “paradossalmente” a questi ultimi autori.

Simili approcci, pur nella loro diversità, vanno tuttavia incontro a quattro limitazioni principali:

A) Riducono l’importanza dei testi in cui emerge il legame fondamentale tra opera tolkieniana e Cristianesimo. In quest’ottica si tende a minimizzare e a volte a ignorare i brani che attestano inequivocabilmente l’importanza che il piano della Rivelazione Cristiana ha nella formazione del Legendarium. All’estero la Madsen ha esplicitamente giudicato l’epilogo di Sulle Fiabe
(5.1.1) solamente un “post scritto” al saggio, simile alla storia di Aragorn e Arwen nel Signore degli Anelli [57], affermazioni entrambe false: infatti sia l’epilogo che le appendici [58] fanno parte integrante di entrambe le opere.

Similmente, per avvalorare il “sentimento politeista” di J.R.R. Tolkien [59] vengono spesso ignorate o tenute in scarsa considerazione le lettere di Tolkien in cui egli attesta l’influenza della sua fede cattolica nella genesi del suo lavoro [60]. Ad esempio Lombardo afferma che:

«Gli Ainur sono in tutto e per tutto divinità pagane. […] Sono insomma ben diversi dagli “angeli” dei monoteismi. […] Con buona pace di Humphrey Carpenter, non è vero che l’Universo creato da Tolkien sia “governato da Dio, l’Uno e che al di sotto di lui [sic] nella gerarchia ci sono i Valar”» [61].

Ma è Tolkien stesso, pur nelle differenze, che afferma in alcune lettere – raramente citate da questi autori – e all’interno del Legendarium [62] la natura “angelica” di queste potenze e la loro diversità da Eru, il solo capace di creare le cose dal nulla:

«I cicli cominciano con un mito cosmogonico: la Musica degli Ainur. Dio e i Valar […] si rivelano. Questi ultimi sono quelli che potremmo definire potenze angeliche, la cui funzione è di esercitare nelle loro sfere l’autorità loro delegata (comandare e governare, non creare, fare o rifare)» [63].

B) Applicano all’opera di Tolkien una lettura simbolica che ne impedisce la comprensione. Questo limite è tipico di alcuni autori italiani e per certi versi ricalca l’errore delle letture cattolico-allegorizzanti (2.B). Nell’approccio “simbolico-tradizionale”, infatti, il testo tolkieniano viene letto sovrapponendovi una matrice la quale fa corrispondere a elementi importanti dei racconti un certo significato. Con particolare chiarezza De Turris dichiara questo intento, e afferma di voler leggere Tolkien alla luce del simbolismo di Julius Evola [64] e altri autori. Non c’è alcuna prova che Tolkien conoscesse questi testi (come del resto dichiarano onestamente alcuni di questi critici [65]), ma questo non risulta un problema insormontabile perché:

«Scrive Evola, nel 1928: “[…] gli autori possono essere i primi ad ignorare il significato ulteriore portato da quel che pensano essere loro ‘creazioni’. Significato che tuttavia esiste, sebbene è ritrovato e riconosciuto solamente da chi ha gli occhi”»[66].

Il problema è che, siccome questi significati non sono “manifesti” né nelle fonti, né nei testi, né nella cosciente intenzione dell’autore, chi non “ha gli occhi” non li può vedere. Questo origina una lettura che, per quanto possa essere documentata e dotta, tende a “piegare” il testo a questi simbolismi:

«Come si è detto, l’interpretazione deve essere simbolica o metapolitica. Sicché in base a questi presupposti, appare lampante come la Compagnia dell’Anello sintetizzi attraverso i suoi componenti valori quali l’amicizia, il cameratismo. […] Evidentemente, anche come il viaggio di avvicinamento della Compagnia a Monte Fato sia in sé un viaggio iniziatico. […] L’Unico Anello è simbolo del potere malvagio o dittatoriale, in contrapposizione agli anelli degli uomini e degli elfi. […] Mordor quindi come simbolo evidente della Modernità»[67].

Ma, appunto, queste associazioni simboliche sono evidenti solo a “chi ha gli occhi”. Solo per limitarci al testo citato, basta ricordare che nella Compagnia vi è un traditore come Boromir, che per Tolkien gli anelli degli Elfi e tantomeno quelli degli Uomini sono considerati poteri “buoni” in sé [68], né si può trovare in Tolkien un solo brano che avvalli il parallelo Mordor / Modernità. Tolkien infatti intende il “simbolo” non come rappresentazione nascosta, ma come “esemplificazione” concreta di certi concetti universali: l’Anello dunque è casomai “simbolo” del Potere, e non dei soli poteri malvagi nella Modernità:

«Noi tutti, come gruppo o come individui, esemplifichiamo principi generali: ma
non li rappresentiamo»69. «[…] il primo simbolismo [è quello] dell’Anello, cioè
il desiderio di potere [e non del solo potere modernamente inteso] che cerca di
diventare oggettivo attraverso una forza e un meccanismo fisici e inevitabilmente
anche attraverso le menzogne»70. «Si può fare dell’anello un’allegoria della nostra epoca, volendo: un’allegoria dell’inevitabile fine a cui vanno incontro tutti i
tentativi di sconfiggere il potere del male con un potere analogo. Ma questo solo
perché tutti i poteri magici e tecnici lavorano sempre in questa direzione»[71].

Questa lettura è quindi di principio “chiusa” e per certi aspetti “immune” a ogni possibile critica: proprio per questo si costringe a non poter considerare sia la complessità del testo sia i più seri studi critici in merito [72], i quali non permetterebbero di proporre così liberamente certe associazioni. Si pensi ad esempio a Frodo visto come simbolo del super-uomo, che finisce la sua vita felice e contento perché partendo per il mare si va a fondere con il tutto [73], posizione questa ancor meno plausibile del Frodo alter Christus esaminato in 2.B.

C) Confonde paganesimo storico e paganesimo “tolkieniano”. Quando si propone l’immagine di un Tolkien pagano, di solito non si sottolineano le importanti differenze tra il mondo della Terra di Mezzo e le civiltà pagane storicamente esistite. Si pensi ai sacrifici umani, praticati da Egizi [74] (una delle fonti di ispirazione per i Numenoreani [75]) e popolazioni nordiche [76], o alla presenza della nudità in molti riti religiosi sia Greci che Vichinghi [77]; nulla di questo si può ritrovare tra i Popoli Liberi della Terra di mezzo. Similmente, il primo principio dell’attuale federazione pagana, è «l’accettazione dell’intrinseca divinità del modo naturale, e il rifiuto di qualsiasi nozione di creazione del mondo da parte di una potenza esterna a questo»[78], ma questo panteismo è lontanissimo dalla cosmogonia tolkieniana in cui Eru – l’Uno Creatore – trascende per potenza tutti i Valar (5.2.A). E anche quando viene citato l’amore di Tolkien per lo spirito guerriero germanico [79], si ci dimentica di ricordare i grandi limiti e pericoli che egli ha ravvisato in questo tipo di etica (5.1.3).

D) Da una differenza parziale tra il mondo tolkieniano e quello cristiano, deducono una contraddizione tra i due. Il mondo del Signore degli Anelli, come ci dice Tolkien stesso (2.1), non è un mondo cristiano, e quindi deve contenere elementi che non lo identifichino con la Rivelazione biblica; ma da queste differenze è errato dedurre l’opposizione tra mondo tolkieniano e piano rivelato. Da Trevisan viene ad esempio ricordato come nel Legendarium esista un popolo come gli elfi che si reincarna, e che questo è «una delle dimostrazioni dell’intrinseco allontanamento di Tolkien dal Cristianesimo» [80], visto che la dottrina della reincarnazione è rifiutata dalla teologia ufficiale [81]. In risposta basti osservare banalmente che sulla reincarnazione degli elfi non esistono pronunciamenti dogmatici, per il semplice fatto che gli elfi non esistono nel Mondo Primario. E in ogni caso è bene ricordare che la presenza di elementi non completamente “ortodossi” nell’opera di un autore, non basta per considerare la sua opera in contraddizione coi contenuti rivelati: anche tra i Dottori della Chiesa è infatti possibile ritrovare posizioni dottrinalmente non corrette (ad es. per Tommaso d’Aquino la Vergine Maria non è, contrariamente al dogma, Immacolata [82]).

Molto più raffinata e testualmente rigorosa è la lettura che su alcuni punti propone Wu Ming 4. L’autore, che non fa mistero di avere un’impostazione marxista e dunque intrinsecamente dialettica, tende a enfatizzare le differenze tra mondo tolkieniano e universo cristiano, fino a farle diventare vere e proprie contraddizioni: questo per allontanare Tolkien (per certi aspetti anche giustamente) dalla comune lettura cattolica:

«Anzi, io credo che sia la sottile incoerenza del quadro d’insieme, la collisione
tra gli elementi di ispirazione cristiana e quelli non propriamente tali, a rendere
inesauribile l’applicabilità dell’opera tolkieniana, la quale rischierebbe altrimenti
di ridursi a una mera traduzione narrativa del messaggio evangelico e di assomigliare
quindi a quell’allegoria morale che Tolkien rifiutava con forza»[83].

A sostegno cita l’autorevole opinione di Shippey riguardo al problema del male (secondo Shippey in Tolkien sono presenti sia una concezione boeziana che una manichea del male) e l’assenza sul piano escatologico del senso di una salvezza finale [84]. Ora, senza entrare in queste due tematiche, ciò che va enfatizzato nel brano di Wu Ming è l’uso dei termini “incoerenza” e “collisione”

e il fatto che egli vede all’interno del mondo tolkieniano la presenza di elementi sia cristiani che pagani, il che rende contraddittorio il tutto. A nostro avviso, invece, il quadro non è incoerente, perché non contiene nessun elemento
strettamente cristiano, in quanto si pone su un livello essenzialmente pagano/
naturale [cfr. 4.a’]. In quanto tale è un universo necessariamente differente
dal contesto rivelato, e non potrebbe essere altrimenti; se no, si violerebbe il
rasoio di Tolkien [2.1)]: e come vedremo subito è proprio in questo particolare
paganesimo che si esprime la sua mentalità cattolica [5-6].

4 La sintesi

Da quanto detto sopra, tesi e antitesi appaiono inconciliabili, e tuttavia entrambe vanno incontro a limitazioni interpretative che ne riducano la prospettiva, perché non ne spiegano l’essenziale legame con la cultura pagana/naturale [2] e con la Rivelazione cristiana [3], entrambe necessarie per avere una reale comprensione del Legendarium. Esiste un modo per risolvere questa contraddizione e che sia capace di inquadrare organicamente tutti gli scritti tolkieniani senza eliminarne nessuno? A me pare di sì, a patto di usare un approccio che distingua:

A) Due punti di vista
a’- Uno interno all’opera, che esamina l’orizzonte teologico ed etico entro il quale si svolgono le storie dei personaggi;
a’’- L’altro esterno, che confronta storicamente l’opera con lo sviluppo della cultura nel nostro mondo “reale”.

B) Due piani
b’- Il piano della Natura: è quello dell’uomo che, in quanto semplicemente uomo, ha delle capacità razionali naturali che gli permettono di indagare il mondo che lo circonda filosoficamente o scientificamente, fare con la sua volontà delle libere scelte in base a cosa ritiene naturalmente buono o cattivo, e produrre con le sue abilità manufatti o opere d’arte, siano queste narrazioni, dipinti, sculture o altro;
b’’- Il piano della Grazia: è un piano sopra-naturale in cui all’uomo vengono fatti alcuni “doni” (ad esempio la Fede) o rivelati certi contenuti come l’Unità e Trinità di Dio, a cui con le sue sole capacità naturali non sarebbe mai potuto arrivare.

In questa prospettiva, ispirata ad alcune intuizioni di Tom Shippey e John Holmes [85]:

− Se si guarda all’opera tolkieniana dal punto di vista strutturale-interno (a’) occorre dire che il piano in cui è ambientata è un piano naturale (b’), nel senso che le conoscenze, le scelte e le opere che fanno i suoi personaggi sono frutto delle loro capacità naturali, senza alcun riferimento esplicito a contenuti di Fede. Dunque, poiché «lo stato naturale dell’uomo è dunque il paganesimo» (poiché l’uomo «è naturalmente pagano») [86], si dovrà dire che siamo di fronte a un’opera pagana e non esplicitamente cristiana.

− Tuttavia, se si considera l’opera da un punto di vista esterno [a’’] e la si confronta con lo sviluppo della cultura occidentale occorre dire che, pur nella diversità, i suoi contenuti sono in armonia con il diverso piano della Rivelazione Cristiana (b’’).

− Infine, è proprio nella presenza di entrambi questi aspetti (opera pagana perché ambientata su un piano naturale, e sua armonia col cristianesimo) che risiede la “fondamentale” cattolicità della produzione tolkieniana.

La sintesi qui proposta si può quindi riassumere in tre proposizioni:

(1) l’opera di Tolkien è internamente pagana;
(2) ed è, dal punto di vista esterno, in armonia con il piano soprannaturale del Cristianesimo;
(3) per entrambi questi aspetti è espressione di un modo di pensare autenticamente Cattolico.

5 Paganicità e armonia con la rivelazione dell’opera tolkieniana

In questa sezione vorrei dimostrare i primi due enunciati della sintesi, secondo i quali l’opera di Tolkien è internamente pagana (1) e in armonia con Cristianesimo (2). Questi due aspetti si possono evincere da:

− affermazioni “di principio” di Tolkien, contenute specialmente nei suoi più importanti saggi critici o conferenze pubbliche, che risultano essere la base fondamentale da cui la narrazione tolkieniana si sviluppa [5.1];

− realizzazione concreta di questi principi nella sub-creazione del Legendarium, dalla cosmogenesi descritta nella Musica degli Ainur fino agli eventi narrati nel Signore degli Anelli [5.2].

5.1. Saggi critici

5.1.1. Sulle Fiabe

A) Piano naturale della Sub-creazione e punto di vista interno

Sulle Fiabe, conferenza del 1939 pubblicata nel 1947, è un testo fondamentale per la comprensione di tutta l’opera di Tolkien tuttavia, a dispetto del titolo, questo scritto si espande ben oltre i confini delle favole. Per Tolkien infatti le fiabe non sono necessariamente legate al mondo e ai gusti dei bambini [87]: la loro radice non risiede dunque in una specifica fase dello sviluppo dell’uomo, bensì nella stessa natura umana (4.b’), la quale non ha età. Le fiabe «sono una naturale inclinazione umana» [88] che risponde a dei «primordiali
desideri umani» [89]. Tolkien, di conseguenza, parla delle tre facce delle Fiabe: la faccia «Mistica rivolta al Soprannaturale; quella Magica volta alla Natura; e lo Specchio delle scherno della pietà, rivolta all’Uomo. La faccia essenziale del Mondo Fatato è quella di mezzo, la Magica. Ma è variabile la percentuale in cui appaiono (se appaiono) le altre due»[90]. Sancito il piano naturale su cui si sviluppano le fiabe (4 (1)), con coerenza Tolkien afferma che la Fantasia (la capacità di sub-creare ovvero «dare a delle creazioni ideali l’intima consistenza della realtà» [91]) resta una facoltà del tutto radicata nel piano della natura umana: «La Fantasia è una naturale attività umana» [92]; «la Fantasia resta un diritto umano» [93]. In questo senso, si potrebbe dire che la Fantasia sta alla letteratura come la Ragione sta alla scienza e alla filosofia. Fantasia e Ragione infatti sono due facoltà naturali fondamentali, che secondo Tolkien si trovano in un rapporto più che positivo visto che «[La Fantasia] non distrugge e neppure offende la Ragione; e non smussa neanche l’appetito per, né oscura la sua percezione della, verità scientifica. Al contrario. Quanto più la ragione è acuta e chiara, tanto meglio opererà la fantasia» [94]. Infatti proprio della Fantasia è riuscire a sub-creare un mondo dotato di una sua verità, seppur derivata e secondaria rispetto al mondo reale, per cui si potrà dire, ad esempio a proposito di un Sole-verde, che

«se hai costruito bene il tuo piccolo mondo, sì: è vero in quel mondo» [95]. «Egli [il sub-creatore] costruisce un Mondo Secondario in cui la nostra mente può introdursi. In esso, ciò che egli riferisce è “vero”: in quanto in accordo con le leggi di quel mondo. Quindi ci crediamo, finché, per così dire, restiamo nel suo interno» [96].

Ecco qui esplicitamente affermata l’importanza di avere un punto di vista interno alla storia (cf. 4.a’) senza il quale lo stesso racconto perderebbe tutto il suo valore e potere sul lettore.

B) Armonia tra Sub-creazione e Rivelazione

Tolkien sviluppa poi alcune considerazioni già sopra accennate, sul nesso tra mondi secondari e piano soprannaturale. Per lui infatti la capacità naturale di sub-creare è un riflesso della capacità di creare propria del Creatore del nostro Mondo Primario, quasi a dire che tra il piano della Natura e quello della Sopra-Natura non c’è separazione ma profonda armonia perché «creiamo a nostra misura e secondo la nostra modalità derivata, perché siamo stati creati; e non soltanto creati, ma creati a immagine e somiglianza di un Creatore» [97]. Nell’Epilogo egli si spinge ancora oltre, affermando dapprima che, se le Fantasie ben riuscite hanno l’«intima consistenza della realtà»98 dalla quale derivano, allora devono essere a loro modo vere. Ma questo deve allora valere anche per il lieto fine o “eucatastrofe”, che fa parte dell’essenza stessa delle
fiabe [99]. Le fiabe, prodotti della natura umana, vengono quindi a trovarsi in mirabile armonia con il piano rivelato del Vangelo, che non abolisce, ma anzi assume, perfeziona e santifica la stessa attività sub-creativa:

«avvicinando da questo versante la Storia Cristiana, ho avuto da gran tempo la sensazione (una gioiosa sensazione) che Dio abbia redento i suoi esseri corrotti e creatori, gli uomini, in un modo che si adatta a questo [l’eucatastrofe] e ad altri aspetti della loro singolare natura. […] Il desiderio e l’aspirazione della subcreazione sono stati elevati sino al compimento della Creazione. La Nascita di Cristo è l’eucatastrofe delle storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. […] L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”»[100].

5.1.2. Beowulf: i mostri e i critici

A) Piano naturale del Beowulf

In questo magistrale saggio del 1936 Tolkien esamina il poema Beowulf nel quale egli vede innanzitutto il «tentativo di dipingere gli antichi tempi precristiani, con l’intenzione di enfatizzare la loro nobiltà, e con il desiderio dei buoni per la verità» [101]. L’autore del poema «lungi da essere un confuso semi pagano […] in primo luogo apportò al suo compito una conoscenza della poesia cristiana […] in secondo luogo, il poeta apportò al suo compito una considerevole conoscenza nelle tradizioni e nelle ballate autoctone» [102].

Il piano in cui si svolge l’azione del poema, tuttavia, se non è quello cristiano, non è nemmeno quello di un paganesimo storicamente esistito perché «se l’elemento specificamente cristiano venne soppresso, lo furono anche gli antichi dei» [103]. Per Tolkien infatti il vero tema del Beowulf è l’uomo sic et simpliciter, la cui natura prescinde dalle diverse determinazioni storiche:

«Beowulf è un uomo e questa, per lui e per molti altri, è già una tragedia sufficiente. […] [Il poema] getta uno sguardo nel cosmo, e si muove col pensiero di tutti gli uomini, il pensiero concernente il destino della vita e degli sforzi umani; sta dentro le insignificanti guerre dei principi, ma è anche sopra di esse, e supera i dati e i limiti del suo periodo storico»[104].

Possiamo quindi dire che se si esamina il poema dal punto di vista interno (4.a’), si vedrà che esso si svolge su un piano essenzialmente naturale (4.b’), in cui l’“oggetto” di studio è l’uomo naturaliter sumptum e non il santo cristiano (4 (1)).

B) Continuità e armonia tra paganesimo e Rivelazione Cristiana

Tuttavia, per Tolkien questo grandioso sforzo poetico va essenzialmente inquadrato all’interno di una prospettiva che tematizza la grande continuità tra cultura pagana/naturale e cristiana/soprannaturale. Tolkien infatti apre il suo saggio critico con una celebre allegoria con la quale egli mette in luce i limiti della critica beowulfiana, tendente a distruggere l’unità del poema (una torre, dalla quale il poeta cristiano riuscì a vedere il mare) per scoprire le fonti pagane dal quale esso nasce (le pietre usate per costruirla; cf. la metafora
della minestra e delle ossa (2.C)). L’immagine ci ricorda Bernardo di Chartres quando afferma che «siamo nani sulle spalle di giganti»[105], riassumendo così una filosofia della cultura in cui il paganesimo è visto in armonia con la rivelazione Cristiana. Per Tolkien infatti

«il poema era (in una certa direzione) ispirato da un dibattito che si protraeva da lungo tempo e sarebbe continuato in seguito, e che fu uno dei principali contributi alla controversia: dobbiamo o no abbandonare alla perdizione i nostri antenati? Che vantaggio avrà la posterità a leggere la battaglia di Ettore? Quid Hinieldus cum Christo? [che ha a che fare Ingeld con Cristo?]»[106].

La frase latina è di Alcuino, monaco inglese del secolo VIII, il quale vietò ai suoi confratelli di ascoltare storie pagane; Ingeldus è un personaggio minore di Beowulf, figlio di Froda, che secondo Saxo Grammaticus e Snorri Sturlson fu un benevolo re contemporaneo di Cristo, che odiava la guerra [107].

L’atteggiamento di Alcuino fu comunque minoritario nella storia della cultura cattolica (6). E proprio questo è l’atteggiamento che ha secondo Tolkien il poeta del Beowulf che egli tanto ammira.

«[Egli] illustrò il valore permanente di quella pietas che fa tesoro delle memorie degli sforzi dell’uomo nell’oscuro passato, uomo caduto e non ancora salvato, disgraziato e non detronizzato» [108]. «[…] è il poeta stesso che ha reso così attraente l’antichità. In conseguenza di ciò, il poema ha un maggior valore, e costituisce per il pensiero dell’Alto Medioevo un contributo più grande della rigida e intollerante concezione che consegnava tutti gli eroi al diavolo» [109].

È del tutto chiaro, anche dal tono “appassionato” di queste frasi, quanto Tolkien condividesse e apprezzasse questo atteggiamento, il quale pur tenendo ferma la propria fede cristiana, riuscì a valorizzare alcuni aspetti della cultura nordica, che non è più vista come antitetica al messaggio Evangelico ma in completa armonia (4 (2)):

«Io mi interesso di quel tempo di fusione [tra paganesimo nordico e cristianesimo] solo in quanto esso può aiutarci a comprendere il poema. […] In Inghilterra questa immaginazione [pagana] entrò in contatto con il cristianesimo e le scritture. Il processo di “conversione” fu lungo, ma alcuni dei suoi effetti furono indubbiamente immediati: un mutamento alchemico (che alla fine produsse il mondo medievale) stava compiendosi»[110].

Quindi, se si considera il poema dal punto di vista esterno (4, a’’), si vedrà che esso si trova in grande armonia (4 (2)) con il piano soprannaturale delle Rivelazione (4.b’’), come ben dimostra il ruolo centrale dei mostri, i nemici dell’uomo che diventeranno poi i nemici anche del Signore visto che in «questo punto la nuova Scrittura e la vecchia tradizione si toccarono e presero fuoco. […] L’uomo straniero in un mondo ostile, impegnato in una lotta che non può vincere sinché il modo durerà, viene assicurato che i suoi nemici [i mostri] sono anche nemici del Signore» [111].

5.1.3. Da Beorhtnoth a Galvano: la santificazione dell’etica pagana

A) Autocritica interna dell’etica pagana e sua armonia con la Rivelazione

Per Tolkien una delle conquiste “etiche” più importanti della cultura pagana nordica è sicuramente la teoria del coraggio, già presente nel Beowulf, ma che viene dettagliatamente esaminata ne Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm [112], scritto da Tolkien all’inizio degli anni ’30, e pubblicato solo nel 1953 sulla rivista accademica Essays and Studies. Si tratta di un testo molto particolare, suddiviso in tre parti: un’introduzione, un poema in versi allitterativi come epilogo della Battaglia di Maldon – poema anglosassone del secolo XI in cui si narra come Beorhtnoth, duca di Essex, rinunciò a una posizione tattica di favore per affrontare i Vichinghi sul medesimo terreno, subendo una sconfitta facilmente evitabile – e una dissertazione sul termine antico-inglese “fermo”. Nel testo Tolkien propone una sua interpretazione del poema molto differente da quella più diffusa che lo considera «la più bella espressione dello spirito eroico nordico, norreno o inglese che sia: la più limpida affermazione del principio della resistenza a oltranza al servizio di una indomabile volontà» [113]. Tolkien però trova questa lettura troppo “semplicistica”, perché per lui questo “spirito eroico nordico” non si trova mai allo stato puro: è sempre una lega d’oro e di un metallo meno nobile.

«a) Allo stato puro, indurrebbe un uomo ad affrontare intrepidamente, se necessario, persino la morte: e cioè quando la morte potrebbe contribuire al raggiungimento di una meta, oppure quando ci si possa garantire la vita soltanto a patto di negare la causa per cui ci si batte. Un comportamento del genere era ritenuto degno di ammirazione, eppure

b) mai era del tutto assente il metallo meno nobile, costituito dal buon nome personale. […] Ma quest’elemento d’orgoglio, sotto forma di aspirazione a onore e gloria, in vita e dopo la morte, tende a dilatarsi, a divenire un movente fondamentale, inducendo chi lo fa proprio, al di là della mera necessità eroica, all’eccesso cavalleresco, indubbiamente tale, anche se approvato dall’opinione coeva, qualora non solo trascenda la necessità e il dovere, ma con essi addirittura interferisca» [114].

Per Tolkien quindi il metallo meno nobile, ovvero l’orgoglio personale, può anche collidere e intaccare il nucleo dorato di questa visione etica che risiede la volontà, indomita fino alla morte, di raggiungere una meta che si reputa superiore a ogni altro “valore”. Per questo egli vede il “nucleo essenziale” del poema nelle righe 89-90, che secondo lui esprimono proprio questa consapevolezza: «Allora il conte nel suo smisurato orgoglio [ofermod]/in effetti cedette terreno al nemico come non avrebbe dovuto fare» [115].

Tolkien qui, andando contro a una solida tradizione filologica, traduce “ofermod” con “orgoglio smisurato” (overmastering pride) anziché con l’usuale “overboldness” (temerarietà, audacia), proprio per mostrare come già all’interno del poema si può trovare una critica alle possibili degenerazioni etiche cui può portare l’enfasi sul metallo meno nobile. Come afferma Shippey: «nel suo lavoro Tolkien stava cercando di conciliare la mentalità cristiana e quella eroica e gli sarebbe piaciuto molto percepire che i suoi antenati in passato avevano cercato di fare la stessa cosa» [116].

Con questo fondamentale scritto tolkieniano, ci troviamo quindi dinanzi una rivalutazione critica dell’etica pagana nordica la quale, pur “nata” su un piano meramente naturale (4 (1)), ovvero all’infuori del contesto cristiano, viene vista capace di auto-critica interna (limiti dell’ofermod) e, nella sua “lega d’oro”, in grande armonia con il cristianesimo (4 (2)) [117].

B) Differenza e armonia tra etica nordica e cristiana

Tolkien vede il medesimo tema della critica allo “smisurato orgoglio” anche nel poema inglese del XIV secolo Galvano e il Cavaliere Verde, in cui re Artù accetta per ofermod una sfida rischiosissima ricevendo le critiche del poeta. Il fedele Galvano però si offre per andare al posto del suo sovrano, salvando così il regno dalla perdita del proprio Re. Tolkien tuttavia vedrà nelle sue successive peripezie – specie nell’aver accettato per cavalleria una cintura da parte di una misteriosa dama – una meditazione da parte del poeta circa la subordinazione dell’etica cavalleresca a quella più marcatamente cristiana [118].

Anche in questa interpretazione si vede come sia centrale in Tolkien la relazione tra paganesimo e cristianità, cavalleria/onore e bene superiore, per quanto in questa tarda opera, scritta in un contesto ormai pienamente cristiano, si sottolinei soprattutto la differenza e subordinazione tra i due piani/codici
(4.b’/b’’).

Resta il fatto che proprio la vicinanza tra spirito nordico “puro” e rivelazione possa spiegare in parte la velocissima conversione dei popoli germanici al cristianesimo [119], e che per Tolkien questa cultura germanica del coraggio non è stata abrogata dal cristianesimo, che anzi in grande armonia ne ha assimilato l’essenza autentica, ovvero il rimanere indomiti anche di fronte alla storia come lunga sconfitta120: «da nessun’altra parte [questo spirito nordico] era più nobile che in Inghilterra, né più presto santificato e cristianizzato» [121]. Non può quindi stupire, né può esser frainteso, il fatto che Tolkien si definisca
un pagano convertito [122].

5.2. Paganità e armonia con Cristianesimo dell’universo tolkieniano

Queste enunciazioni generali di inequivocabile armonia tra cultura pagana e cristiana sono poi di fatto realizzate da Tolkien anche all’interno del suo Mondo Secondario. Non potendo qui esaminare tutta l’opera123, mi limiterò a indicare come in alcuni elementi portanti si ritrovi proprio questo duplice piano di una paganicità naturale, ma in armonia col piano soprannaturale della Rivelazione:

A) La Teologia del Legendarium riconosce un triplice ordine gerarchico di esseri intelligenti: Eru (l’Uno che crea grazie al un misterioso Fuoco segreto), entità spirituali (Ainur, Valar, Maiar) e essere incarnati (Elfi e Uomini in primis). Una simile tripartizione non ha tuttavia nulla di esplicitamente cristiano, visto che già era stata intuita dalla filosofia greca. Anzi, alcuni elementi sono radicalmente diversi dalla teologia cristiana: si pensi al fatto che alcuni Maiar si assumono un corpo e hanno figli con gli elfi (Melian con Thingol) o che il mondo viene creato da Eru già contaminato dal peccato (cf. 2.D). Per questo va detto che la teologia del Legendarium è essenzialmente pagana. Tuttavia, tale prospettiva è nella sostanza in armonia con il messaggio cristiano, che afferma una simile gerarchia (Dio/Angeli/Uomini) e completa alcuni contenuti della medesima (il Fuoco Segreto può essere paragonato allo Spirito Santo).

B) Per quel che concerne la Filosofia della Storia, quella del Legendarium è indubbiamente pessimistica: all’inizio vi sono della drammatiche cadute di Valar, Elfi e Uomini e man mano che passa il tempo la luce iniziale si frammenta e si indebolisce sempre di più. L’escatologia poi non è molto chiara: si accenna a una prospettiva positiva in cui il mondo sarà risanato e si dice solo che dopo la morte per l’uomo c’è qualcosa «più dei ricordi» [124]. La prospettiva che guida i protagonisti dei racconti è quindi essenzialmente pagana perché del tutto intramondana e non orientata alla Vita Eterna propria della Rivelazione. Tuttavia queste idee risultano in armonia con il Cristianesimo visto che la resurrezione futura in un mondo nuovo e i cosiddetti novissimi perfezionano mirabilmente le “intuizioni” rintracciabili nel Legendarium.

C) Infine l’Etica all’interno del quale si muovo i protagonisti delle opere tolkieniane è completamente diversa dalle ragioni che muovono l’eroe cristiano (il santo o il martire [125]), che sono essenzialmente l’amore per un Dio trascendente cui ci si vuole riunire (“muoio perché non muoio”, diceva S. Teresa d’Avila) e il desiderio di testimoniare col sacrificio di sé la propria Fede. Per questa assenza di riferimenti espliciti al piano superiore della Grazia, possiamo dunque dire che gli eroi del Legendarium sono essenzialmente pagani. Tuttavia questi realizzano la parte più nobile dello spirito nordico del coraggio [cf. 5.1.3] tanto che è anacronisticamente definito “pagano” il comportamento di Denethor che per ofermod preferisce il suicidio alla perdita dell’onore in battaglia [126]. Ben altro è il comportamento di Gandalf che, diversamente da Beorhtnoth, non lascia passare sul ponte il Balrog a Moria, o dei Rohirrim che cavalcano indomiti anche dopo aver constatato la morte di Theoden. Per questo gli eroi pagani della Terra di mezzo sono in grande armonia con lo spirito di sacrificio proprio del martire cristiano.

6 Cultura cattolica e opera tolkieniana

Questa sezione conclusiva è dedicata alla “dimostrazione” del terzo enunciato della sintesi proposta (4 (3)), che riguarda il senso “autentico” della fondamentale cattolicità dell’opus tolkieniano.

6.1. Chiarificazione del termine “cattolico”

Volendo dare del cattolicesimo una definizione culturale (ovvero che prescinde dalla fede individuale del singolo lettore, ma che si basa unicamente sulle fonti storiche) si può dire che questa interpretazione del cristianesimo si caratterizza per l’aver sempre affermato la differenza tra piano naturale e soprannaturale e la loro reciproca armonia. In questa prospettiva l’uomo pagano, ovvero “fuori” dalla Rivelazione [cfr. 1], acquista una enorme dignità, visto che si ritiene abbia delle capacità naturali che gli permettono di accedere, seppur parzialmente, a quella Verità e a quella Bellezza che sono completamente contenute nella Rivelazione Cristiana. La storia del Cattolicesimo del resto conserva nell’arte [127] e nella liturgia buona parte della cultura classica [128] e nordica [129], e realizza di fatto questa assimilazione del paganesimo [130]. Tolkien ne era perfettamente consapevole, tanto che iniziò a scrivere una storia della Chiesa in Inghilterra (Church in Ancient England). Si tratta di una serie di manoscritti ancora inediti e da me personalmente esaminati alla Bodleian Library di Oxford, in cui Tolkien sottolinea come tra VII e inizio XI secolo si realizzò in Inghilterra una fusione tra cultura pagana, romana e cristiana, che portò poi i missionari inglesi a convertire le popolazioni continentali. Per Tolkien infatti «le missioni continentali [sono] una delle maggiori glorie dell’Antica Inghilterra e uno dei nostri maggiori servigi resi all’Europa in tutta la nostra storia» [131].

Il fondamento di questa prospettiva armonica si trova già nell’Antico Testamento, in cui ci sono figure che possono essere definite “santi pagani”, perché sono dei “giusti” che però non hanno ancora ricevuto la rivelazione (Abele, Noé, Melchisedek, la Regina di Saba [132]). Nei libri di Giona e di Giobbe, peraltro almeno parzialmente tradotti da Tolkien per la Bibbia di Gerusalemme Inglese [133], il tema è proprio quello della salvezza della città pagana di Ninive e della santificazione di un pagano attraverso innumerevoli prove.

Nel Nuovo Testamento si afferma ancor più chiaramente la salvezza per tutti gli uomini (cf. la discesa di Gesù negli inferi per salvare coloro morti prima della sua incarnazione [134]). San Paolo stesso afferma la possibilità da parte della ragione naturale dell’uomo di conoscere l’esistenza di Dio [135] e la sua Provvidenza [136] senza necessità di una Rivelazione esplicita, e con questo spirito si reca all’Areopago riuscendo a convertire alcuni filosofi [137].

I padri della Chiesa hanno poi accolto fin da subito alcune conquiste della cultura pagana: da Giustino [138] a Clemente Alessandrino [139], da Eusebio di Cesarea [140] ad Agostino d’Ippona [141]. Lo si vede in particolare nella valutazione positiva che essi hanno dato della cultura antica: l’idea di praeparatio evangelii [142], il ritenere la salvezza accessibile anche ai pagani virtuosi [143] e l’uso delle categorie filosofiche greche per comprendere il contenuto della Scrittura [144], non sono che “conseguenze” dell’armonia tra natura e grazia, ragione e fede.

Per Tommaso d’Aquino, secondo cui gratia non tollit naturam, sed perficit [145], ci offre la più chiara distinzione tra i diversi ordini all’interno di un’unica Verità, cosicché alcune verità che la ragione naturale può afferrare quali l’esistenza e provvidenza di Dio, divengono preamboli e presupposti al perfezionamento da parte della fede, che contiene verità inaccessibili alla sola ragione (come la Trinità e Unità di Dio) [146]. Ciò stabilito, egli ritiene possibile la salvezza anche per quei pagani che hanno seguito i principi razionali ed etici radicati nella natura umana, considerandoli appartenenti “in potenza” alla Chiesa [147] ed aventi, quanto a contenuto, la medesima fede [148]; tra questi annovera i patriarchi pre-abramitici Elia e Enoch [149], le Sibille [150] e Traiano. Quest’ultimo, secondo un’antica leggenda – che da S. Gregorio Magno giunge fino al Policraticus di Giovanni di Salisbury – per la sua virtù venne salvato (nonostante fosse stato persecutore dei cristiani) tramite risurrezione e seguente battesimo [151]. Anche Dante riprende la leggenda [152]; inoltre pone nel suo Paradiso altri illustri pagani come Rifeo che salvò Enea sacrificando la propria vita [153], e colloca nel Limbo i maggiori poeti e filosofi dell’antichità [154]. Queste tematiche erano ben note a Tolkien, critico esplicito di Alcuino (5.1.2) e che di certo conosceva la storia di S. Erkenbrand, poema anglosassone che riprende nella sostanza la leggenda di Traiano: ho infatti scoperto assieme a Thomas Honegger che Tolkien possedeva un testo [155] contenente questa leggenda, attribuita al medesimo autore di Pearl.

Anche in seguito la salvezza degli infedeli è sempre stata considerata possibile all’interno della teologia cattolica:

«La dannazione di tutti i pagani che non hanno mai sentito parlare di Gesù Cristo non è mai stata una dottrina cattolica […]. A chi fa il possibile, Dio non rifiuta la grazia; questo principio, che i Protestanti hanno rimproverato alla Scolastica, […], è stato applicato dalla teologia cattolica a beneficio degli infedeli» [156].

«[…] Solo quelli che sono colpevolmente fuori dalla Chiesa Cattolica sarebbero esclusi dalla salvezza, [ma] il Vaticano II presuppone l’assenza della colpevolezza […] quindi dobbiamo concludere che possono essere salvati. E questo si applica alla maggior parte delle genti che non hanno né la fede Cristiana né il Battesimo»[157].

La “cattolicità” della tesi che sostiene l’armonia natura/grazia e ragione/fede è stata infine ribadita dalla teologia del XX secolo [158] fino al Concilio Vaticano II [159] e oltre [160], con quella continuità di insegnamento tipico della cultura cattolica del quale Tolkien doveva essere ben consapevole, visto che fu educato in un collegio fondato da John Henry Newmann, autore della celebre opera Lo Sviluppo della dottrina cristiana, dedicata proprio a questi temi e che condusse il futuro cardinale ad abbracciare la fede cattolica.

6.2. L’opera di Tolkien come espressione di una mentalità cattolica

Ritornando a Tolkien, siamo ora in grado argomentare meglio il senso della “cattolicità” della sua opera, affermata nella terza proposizione del nostro approccio (4 (3)). Si è infatti visto come egli usi nel suo lavoro (sia critico (5.1) che narrativo (5.2)) quei principi di distinzione e armonia di piani (4) che gli permettono di valorizzare l’uomo pagano naturaliter sumptum senza contraddire la Rivelazione, principi che caratterizzano anche l’interpretazione cattolica del messaggio Cristiano (6.1).

Quindi, poiché i medesimi principi che Tolkien usa sono anche l’essenza culturale del cattolicesimo, da sempre teso ad assimilare anziché rifiutare le conquiste dell’uomo naturaliter sumputm all’interno di una prospettiva Rivelata (6.1), si può dire che l’opera di Tolkien è espressione di una cultura autenticamente cattolica [4 (3)]. Proprio in questo, a nostro avviso, risiede il vero senso della citatissima lettera n. 142, in cui Tolkien afferma che la sua è un’opera “fondamentalmente religiosa e cattolica”. Essa lo è non perché contiene (infondati) rimandi a figure evangeliche, bensì perché paradossalmente non è esplicitamente cristiana, ma ambientata in un contesto pagano in cui viene tematizzata l’universale condizione umana, in una prospettiva che tuttavia si presenta in grande armonia con i contenuti della Rivelazione Biblica.

7 Conclusione

A questo punto, dopo aver esaminato le posizioni contrarie (2-3) e aver enunciato (4) e argomentato la nostra tesi sintetica (5-6), possiamo affermare che la presente prospettiva rende ragione dell’intero opus tolkieniano (5-6), evitando tutte le limitazioni della letture sopra esaminate, infatti:

A) In risposta ai limiti delle interpretazioni esplicitamente cristiane

1) non viola il “rasoio di Tolkien”, ma anzi si lo “usa” con grande coerenza tanto da affermare con vigore la paganicità del mondo tolkieniano;
2) non confonde applicazione/allegoria/interpretazione, perché non ha l’esigenza di trovare diretti riferimenti al Cristianesimo all’interno dei racconti tolkieniani;
3) similmente, non ha la necessità di confondere una fonte con una rappresentazione;
4) né si vede costretta a ignorare le differenze tra Legendarium e Rivelazione, ma anzi le esige, visto il piano naturale/pagano e non soprannaturale su cui si svolge la storia della Terra di mezzo.

B) In risposta alle limitazioni riscontrate nelle letture pagane, questo approccio

1) non ignora i testi in cui emerge il nesso tra Legendarium e Cristianesimo, e li spiega alla luce dell’armonia tra questi universi, posti sì su diversi piani, ma senza alcuna antitesi reciproca;
2) evita l’applicazione di simbolismi estrinseci al testo tolkieniano, che viene approcciato prima di tutto da un punto di vista interno;
3) spiega la diversità tra il paganesimo tolkieniano, posto su un piano di Natura – e quindi astorico – e le sue più note forme storiche;
4) non deduce da differenze parziali delle contraddizioni totali, perché la differenza armonica tra Legendarium e Rivelazione diviene una principio cardine di questo approccio.

Con questo saggio spero così di aver contributo a mostrare la profondità teologica dell’opera di Tolkien, la quale non è stata scritta né per una singola nazione (l’Inghilterra) né per una specifica religione (Cristiana o Pagana che sia), ma che, essendo espressione di una mentalità autenticamente cattolica, tende a magnificare “tutta l’umanità” [161], capace di intravedere con le sue capacità naturali che oltre i confini del Mondo c’è qualcosa «più dei ricordi» [162]

Note

[1] Lettere n.153 (rimandiamo qui al solo numero delle lettere, raccolte in J.R.R. Tolkien, La Realtà in trasparenza, Bompiani, Milano 2002).

[2] È quanto emerso nel convegno internazionale “Tolkien e la Filosofia” organizzato nel 2010 a Modena dall’Istituto Filosofico di Studi Tomistici e l’Associazione Romana di Studi Tolkieniani, e i cui atti sono ora disponibili: R. Arduini – C.A.Testi (edd.), Tolkien e la filosofia, Marietti 1820, Milano 2011.

[3] Per una panoramica esaustiva sulla critica legata a questi temi si veda la prefazione di P. Kerry al volume The Ring and the Cross, Dickinson U.P., Maryland 2011 (nella quale vengono citati più di 200 contributi) e l’articolo di T. Fornet-Ponse, “The Lord of the Rings is of Course a Fundamentally Religious and Catholic Work”: Tolkien zwischen christlicher Instrumentalisierung und theologischer Rezeption, in Hither Shore 1 (2004) 53-70.

[4] Purtroppo in Italia il dibattito critico su Tolkien ha fin dalla sua origine avuto un carattere soprattutto politico, in cui il problema era determinare se Tolkien fosse autore di destra o meno (si veda su questo: G. De Turris, Il caso Tolkien, in M. Polia – G. De Turris – A. Morganti – T. Bologna, Tolkien Creatore di Mondi, Il Cerchio, Rimini 1992, 7-28; L. Del Corso – P. Pecere, L’Anello che non tiene, Minimum fax, Roma 2003; A. Mingardi – C. Stagnaro, La Verità su Tolkien, Liberal Edizioni, Roma 2004).

[5] Si veda ad esempio: E. Passaro – M. Respinti, Paganesimo e Cristianesimo in Tolkien, Il Mino-
tauro, Roma 2004.

[6] Cf. A. Monda – Wu Ming 4, Tolkien pensatore cattolico?, in R. Arduini – C.A. Testi (edd.), Tolkien e la filosofia, 80-123.

[7] Il Giornale, 27 Settembre 2011, 28.

[8] Che questi fosse un devoto cattolico lo attesta banalmente la sua biografia: egli si professava apertamente «Cattolico Romano» (Lettere n. 195 e n. 213), particolarmente devoto a Maria (ivi, n. 142), considerava sua madre una martire della fede (ivi, n. 142 e n. 267), consigliava di comunicarsi tutti i giorni (ivi, n. 250), credeva all’Angelo Custode (ivi, n. 54 e n. 89), considerava i liberi costumi sessuali di allora un segno del dilagare della concupiscenza (ivi, n. 43), vedeva nel matrimonio anche una mortificazione degli istinti sessuali (ivi, n. 43), era contrario alle leggi sul divorzio (ivi, 49), andava in pellegrinaggio in luoghi di culto come Lourdes (ivi, n. 89), amava la Messa in latino tanto che continuò a recitare le invocazioni in latino anche dopo la riforma del Concilio Vaticano II (cf. S. Tolkien, Intervista a Simon Tolkien, in Mallorn 50 [2010] 42-45).

[9] J. Danielou, I santi pagani nell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia, 1988, 14 (corsivi aggiunti).

[10] Gli Ebrei non sono mai stati equiparati ai pagani (U. Tworuschka, art. Pagani, in Dizionario comparato delle religioni monoteistiche, Piemme, Casale Monferrato 1998, 517-519, 517), e già nel sec. XIII Tommaso d’Aquino non considerava i Musulmani dei “pagani” (cf. Summa Contra Gentiles, lib. I., cap. 2, n. 4; De rationibus fidei, c. 7) per quanto solo dal sec. XVI questa distinzione diventerà di uso comune (U. Tworuschka, Pagani, 517-518; H. Maurier, Pagnesimo, in P. Poupard (edd.), Grande dizionario delle religioni, Piemme, Casale Monferrato 2000, 1569-1572).

[11] Ivi, 15s.

[12] Cf. J. Pearce, Tolkien. L’Uomo e il Mito, Marietti 1820, Milano 2010.

[13] Cf. S. Caldecott, Il Fuoco segreto, Lindau, Milano 2009.

[14] Cf. P.J. Kreeft, The Philosophy of Tolkien, Ignatius Press, San Francisco 2005.

[15] Cf. J. West Jr., Celebrating Middle-earth, Inklings Books, Seattle 2002.

[16] Cf. R. Wood, The Gospel according to Tolkien, John Knox Press, London 2003; Id., J.R.R. Tolkien: His sorrowful vision of Joy, in D. Hein – E. Henderson (eds.), C.S. Lewis and Friends, SPCK, London 2011, 117-134.

[17] Cf. N. Agøy, The Christian Tolkien: a response to Ronald Hutton, in P. Kerry (ed.), The Ring, 71-89; Id. Fall and Man Mortality, in Arda Special 1, The Arda Society, Oslo 1997, 16-27.

[18] Cf. G. Sommavilla, Peripezie dell’epica contemporanea, Jaca Book, Milano 1983, 456.

[19] Cf. A. Monda, L’anello e la Croce, Rubettino, Saveria Mamelli 2008. Sulla stessa linea inter-
pretava ricordiamo anche: G. Bertani, Le radici profonde. Tolkien e le Sacre Scritture, Il Cerchio, Città di Castello 2011. Naturalmente ci sono molti altri qualificati studiosi italiani tolkieniani di “ispirazione
cattolica”, le cui posizioni sono però più “sfumate” e quindi meno “emblematiche” per illustrare la lettura esplicitamente cristiana. Tra questi ricordiamo: Franco Manni (il massimo studioso italiano dell’opera tol-
kieniana), Marco Respinti, Guglielmo Spirito, Saverio Simonelli, Edoardo Rialti e Paolo Gulisano.

[20] Lettere n. 131 (corsivi aggiunti).

[21] Ivi, n. 165 (corsivi aggiunti).

[22] Ivi, n. 269, del 1965.

[23] Ivi, n. 211 (corsivi aggiunti).

[24] G. Sommavilla, Peripezie, 456. Anche Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro, nel loro pregevole pamphlet, considerano esplicitamente Il Signore degli Anelli un’epica cristiana (A. Mingardi – C. Stagnaro, La Verità su Tolkien, Liberal Edizioni, Roma 2004, 133 sgg.).

[25] J.R.R. Tolkien, Prefazione alla seconda edizione inglese de “Il Signore degli Anelli”, in Id., Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2003, 19; cf. Letttere n. 203.

[26] Lettere n. 297 (traduzione mia): distinzione tra interpretazione e allusione a significati nascosti.

[27] Lettere n. 165 e n. 211.

[28] A. Monda – Wu Ming 4, Tolkien Pensatore Cattolico?, 89 (corsivi aggiunti).

[29] Cf. A. Monda, L’Anello, 116.

[30] Lettere n. 181.

[31] Cf. ivi, nn. 181, 191, 192.

[32] Cf. ivi, n. 246.

[33] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, vol. III (libro VI, cap. IX).

[34] Cf. Lettere n. 246 e n. 325.

[35] Cf. ibidem.

[36] Cf. J.R.R. Tolkien, Sulle Fiabe, in Id., Il Medioevo e il fantastico, Luni, Milano 2000, 189.

[37] Cf. ivi, 182

[38] Cf. ivi, 192, 189

[39] J.R.R. Tolkien, Sulla Fiabe, 182; cf. Lettere n. 297.

[40] Cf. ivi, 253; M. Burns, Perilious Realms, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2005, 106 ss.; R. Hutton, The Pagan Tolkien, in P. Kerry (ed.), The Ring, 57-70, 59.

[41] Cf. R. Hutton, The Pagan, 101. 42 Cf. J. Rateliff, She revisited, in J. Fischer (ed.), Tolkien and the Study of His Sources, Mc Farland, Jefferson-North Carolina-London 2011, 145-161.

[43] Cf. M. Burns, Saintly and distant Mothers, in P. Kerry (ed.), The Ring, 246-258, 252-253.

[44] S.Caldecott, Il Fuoco Segreto, 87. «Per Tolkien Elficità e Cattolicesimo sono strettamente correlate. Penso che si possa individuare un “codice nascosto” nel Signore degli Anelli, che si riferisce a idee e temi cattolici, come l’Eucarestia e la Beata Vergine Maria» (S. Caldecott, Tolkien’s Project, in Id. – T. Honegger
[eds.], The Lord of the Rings. Sources of inspiration, Walking Tree Publisher, Zürich-Jena 2008, 226).

[45] Lettere n. 142; cf. Lettere n. 213.

[46] Cf. ivi, n. 320; cf. n. 299.

[47] Cf. Lettere n. 353.

[48] Cf. J.R.R. Tolkien, Racconti Incompiuti, Rusconi, Milano 1981, 316.

[49] Si veda ad esempio l’analisi del Silmarillion offerta da G. Sommavilla, Peripezie dell’epica contemporanea, 440s. Ancor più esplicito Pearce secondo il quale «la teologia del Silmarillion è di natura ortodossa, rispecchiando in larga misura gli insegnamenti del cristianesimo tradizionale. […] In realtà, lungi dal creare una nuova teologia, Tolkien semplicemente ne adottò e adattò a proprio uso una antica, e questa teologia cattolica, presente esplicitamente nel Silmarillion e implicitamente nel Signore degli Anelli, è onnipresente in entrambe» (J. Pearce, Tolkien. L’Uomo e il Mito, 103).

[50] G. Bertani, Le radici profonde. Tolkien e le Sacre Scritture, 43.

[51] «Suppongo che una differenza fra questo mito e quella che forse può essere chiamata la mitologia cristiana sia la seguente. Nella seconda, la Caduta dell’uomo è successiva e una conseguenza (benché non una conseguenza necessaria) della Caduta degli Angeli: una ribellione di libere volontà create, di un livello superiore agli uomini; ma non è chiaramente stabilito (e in molte versioni non è affatto stabilito) se questo abbia avuto influenza sul mondo e sulla sua natura: il male vi venne portato dall’esterno, da Satana. In questo mito la ribellione di libere volontà create precede la creazione del mondo (Eä); ed Eä contiene già, introdotti in modo subcreativo, il male, la ribellione, elementi di contraddizione rispetto alla sua natura, quando viene detto “E così sia”» (Lettere n. 212 [corsivi aggiunti]).

[52] Cf. C. Madsen, “Light from an Invisible lamp”: Natural Religion in The Lord of the Rings, in J. Chance (ed.), Tolkien and the Invention of Myth, University Press of Kentucky, Lexington 2004, 35-47; id., Eru erased: The Minimalist Cosmology of The Lord of the Rings, in P. Kerry (ed.), The Ring, 152-169.

[53] Cf. R. Hutton, The Pagan, 57-70; Id., Can We Still Have a Pagan Tolkien? A Reply to Nils Ivar Agøy, in P. Kerry (ed.), The Ring, 90-105.

[54] Cf. S. Murillo, The Entwives: Investigating the Spiritual Core of The Lord of the Rings, in P. Kerry (ed.), The Ring, 106-118.

[55] Cf. P. Curry, Defending Middle-earth, Harper Collins, London 1997.

[56] Cf. Wu Ming 4, L’Eroe Imperfetto, Bompiani, Milano 2010; Prefazione a J.R.R. Tolkien, Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, Bompiani, Milano 2010, 5-20.

[57] Cf. C. Madsen, Eru erased, 163.

[58] Cf. Lettere n. 89 e 181.

[59] Cf. A. Lombardo, Il sentimento politeista di J.R.R. Tolkien, in G. De Turris (ed.), “Albero” di Tolkien, Bompiani, Milano 2007, 99-115.

[60] Cf. Lettere n. 213; cf. ivi, n. 142.

[61] A. Lombardo, Il sentimento politeista di J.R.R. Tolkien, 101.

[62] L’Uno viene nominato esplicitamente due volte nelle appendici de Il Signore degli Anelli, ma la differenza tra Eru e i Valar è una costante nello sviluppo del Legendarium: si vedano i primi due capitoli del volume di E. Wittingham, The Evolution of Tolkien’s Mythology, McPharland, North Carolina 2007.

[63] Lettere n. 131.

[64] Autore di Imperialismo Pagano. Il fascismo di fronte al pericolo euro-cristiano, Edizioni Mediterranee, Roma 2004.

[65] Ad esempio S. Giuliano nel suo documentato studio J.R.R. Tolkien. Tradizione modernità nel Signore degli Anelli, Bietti, Milano 2013, “usa” gli studi di Dumézil, ma con onestà intellettuale ricorda che non ci sono prove certe che Tolkien lo avesse letto (57).

[66] G. De Turris, Prefazione a S. Giuliano, in S. Giuliano, J.R.R.Tolkien, 11 (enfasi aggiunte).

[67] G. De Turris, Tolkien fra tradizione e Modernità, in G. De Turris (ed.), “Albero” di Tolkien, 136-137.

[68] Cf. Lettere n. 131.

[69] Ivi, n. 181 (traduzione mia).

[70] Ivi, n. 131 (corsivi aggiunti).

[71] Ivi, n. 109 (corsivi aggiunti).

[72] Questo lo dimostrano anche le bibliografie citate per anni da questi autori, in cui mediamente più del 70% dei riferimenti a studi tolkieniani sono verso chi ha un medesimo approccio simbolico. Si potrà constatare facilmente quanto detto scorrendo questi testi: M. Polia, Omaggio a J.R.R. Tolkien, Il Cerchio, Rimini 1980; G. De Turris, Il caso Tolkien, 7-28; M. Polia, Creatore di Mondi, 29-58; T. Bologna, Tolkien e gli altri, in M. Polia – G. De Turris – A. Morganti – T. Bologna, Tolkien Creatore di Mondi, 79-100; G. De Turris, Tolkien fra tradizione e Modernità, 133-142; S. Fusco, L’uso del simbolismo tradizionale in J.R.R.Tolkien, 69-74; G. Casseri, Frodo Baggins, l’eroe che non ha fallito, 183-198; G. De Turris, La Terra di mezzo, un mondo immaginario?, prefazione a P. Kocher, Il Maestro della Terrra di mezzo, Bompiani, Milano 2011, 15-41; C. Bonvecchio, Frodo o del destino dell’eroe, in C. Bonvecchio (ed.), La Filosofia del Signore degli Anelli, Mimesis, Milano 2008, 23-57; G. De Turris, Il Signore degli Anelli come itinerario iniziatico, 57-70. In questi saggi vi sono circa 67 citazioni di testi critici su Tolkien (biografie escluse) di cui 48 riguardano autori presenti in questo elenco (più alcuni altri a questi riconducibili), 14 sono di opere straniere e 5 di studi italiani tolkieniani di diversa ispirazione.

[73] Cf. C. Bonvecchio, Frodo o del destino dell’eroe, 23-57, 51s; cf. G. Casseri, Frodo Baggins, l’eroe che non ha fallito, 183-198.

[74] Cf. S. Najoivits, Egypt, trunk of the tree, Algora Publishing, New York 2003, vol. 1, 41.

[75] Cf. Lettere n. 211.

[76] Cf. E.O.G. Turville-Petre, Myth and Religion of the North, Greenwood Press Publ., Westport (CT) 1975, 251-261; P. Belloni du Chaillu, The Viking Age, Ellbron Classics, London 2005, vol. 1, 364. Anche T. Shippey (J.R.R.Tolkien. Autore del secolo, Simonelli, Brescia 2004, 198) ricorda i sacrifici umani compiuti dai Germani e attestati da Tacito (De Origine et situ Germanorum, 40.2).

[77] Cf. R. Hutton, Withches, 195-200.

[78] Id., The Triumph of the Moon, Oxford U.P., Oxford 1999, 390.

[79] Cf. E. Passaro, Tolkien pagano, in Minas Tirith 9 (2000) 37-45.

[80] Citato in A. Lombardo, Il sentimento politeista di J.R.R. Tolkien, 103.

[81] Cf. R. Hutton, “Can we…”, 96; P. Curry, Defending, 112.

[82] Cf. Summa Theologiae III, q. 27, a. 2.

[83] A. Monda – Wu Ming 4, Tolkien pensatore cattolico?, 92-93 (corsivi aggiunti).

[84] Cf. ibidem.

[85] Cf. l’idea dei pagani virtuosi sostenuta da Shippey in varie opere (J.R.R.Tolkien: La via per la Terra di mezzo, Marietti 1820, Milano 2005, 283 sgg.) e il saggio di J. Holmes, Like heathen king, in P. Kerry (ed.), The Ring, 119-144. Questi autori, basano in gran parte la loro analisi sul concetto di praeparatio evangelii, che però, “imbrigliando” il mondo tolkieniano un discorso cronologico, non può coerentemente spiegare la presenza di tanti elementi assolutamente moderni nel Legendarium (la mentalità tecnica di Saruman, i limiti della borghesia rispecchiati dalla società hobbit, l’anacronistico uso di certe parole, ecc…). Quello che è centrale nella mia analisi è invece il concetto di “piano naturale” come ambiente del mondo tolkieniano, nel quale possono così entrare tutti i problemi dell’uomo sic et simpliciter, siano questi stati posti in termini antichi o moderni, precristiani, cristiani o post-cristiani. Sul tema si veda anche l’importante contributo di F. Manni, Introduzione, in T. Shippey, J.R.R. Tolkien. Autore, 7-23. In Italia anche Gulisano ha accennato al tema della praeparatio evangelii (cf. P. Gulisano, Il Mito e la Grazia, Ancora, Milano 2001, 138).

[86] J. Danielou, Miti Pagani e mistero cristiano, Arkeios, Roma 1995, 9.

[87] Cf. J.R.R. Tolkien, Sulle Fiabe, 194 sgg.

[88] Ivi, 202 (corsivi aggiunti).

[89] Ivi, 176 (corsivi aggiunti).

[90] Ivi, 188 (corsivi aggiunti).

[91] Ivi, 206

[92] Ivi, 213.

[93] Ivi, 214.

[94] Ivi, 213

[95] Ivi, 227.

[96] Ivi, 197.

[97] Ivi, 214.

[98] Ivi, 227.

[99] Cf. ivi, 225-227.

[100] Ivi, 227, 229.

[101] J.R.R. Tolkien, Beowulf: mostri e critici, in Id., Il Medioevo e il Fantastico, Luni, Milano 2000, 59.

[102] Ivi, 58.

[103] Ivi, 51.

[104] Ivi, 46, 68 (corsivi aggiunti).

[105] Citato in Giovanni di Salisbury, Metalogicon, III, 4.

[106] Ivi, 53.

[107] Cf. T. Shippey, J.R.R. Tolkien. Autore, 202s; Id., La Via, 287s.

[108] Ivi, 53; cf. Sulle Fiabe e Mitopoeia in cui si usano quasi le medesime parole.

[109] Ivi, 60.

[110] Ivi, 48-50.

[111] Ivi, 57 (corsivi aggiunti); cf. ivi, 52.

[112] Cf. J.R.R. Tolkien, Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, Bompiani, Milano 2010.

[113] Ivi, 58.

[114] Ivi, 58 (enfasi e divisioni aggiunte).

[115] Ivi, 57.

[116] T. Shippey, Tolkien e il “Ritorno”, 95.

[117] Cf. ivi, 69-95; anche per L. Forest-Hill, Boromir, Byrhtnoth, and Bayard, in Tolkien Studies 5 (2008) 73-98, con la rilettura del termine “ofermod” Tolkien cerca di conciliare paganesimo e cristianesimo.

[118] Cf. J.R.R. Tolkien, Galvano e il Cavaliere Verde, in Id., Il Medioevo, 119-166.

[119] Cf. T. Shyppey, The appeal for the pagan, in Id., Roots and Branches, Walking Tree, Zürich-Jena 2007, 19-38, 28.

[120] Cf. Lettere n. 77.

[121] Ivi, n. 45.

[122] Cf. J.R.R. Tolkien, Inglese e Gallese, in Il Medioevo, 239-282, 240.

[123] Per un esame più dettagliato di questi elementi cf. C.A. Testi, Tolkien’s Work: is it Pagan or
Christian?, in Tolkien Studies 1 (2013) 1-47.

[124] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Appendice A.5, 1146.

[125] Sulla differenza tra eroe cristiano e pagano si veda E. Fromm, Avere o Essere, BUR, Milano 1977, 157-160.

[126] Dapprima Denethor afferma: «Noi arderemo come facevano i re pagani [“antichi” nella traduzione italiana corrente] quando dall’Ovest non era ancora giunta la prima nave» (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, 893), poi Gandalf gli rimprovera che solo «i re pagani [“schiavi” nella traduzione vigente] dell’Oscuro Potere si comportavano nella loro empietà in questo modo, suicidandosi in preda all’orgoglio e alla disperazione, assassinando i loro cari per facilitare la propria morte» (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, 923). Cf. T. Shippey, J.R.R. Tolkien: La Via, 207s.; Id., J.R.R. Tolkien. Autore, 197s; W. Hammond – C. Scull, The Lord of the Rings: a reader’s companion, Harper Collins, London 2005, 573.

[127] Sulla continuità tra cultura pagana e cristiana cf. J. Danielou, Miti Pagani; P. Dronke, Imagination in the late Pagan and early Christian world, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2003. Si vedano anche le voci Classicismo e Mitologia in Enciclopedia dell’Arte Medievale dell’Istituto Treccani (Roma 1997, voll. V e VIII).

[128] Preservata dal crollo dell’Impero Romano e trasmessa ai posteri grazie agli amanuensi benedettini. Per un orientamento sul vastissimo tema si veda G. Billanovich – C. Villa – G.C. Alessio, Tradizione classica e cultura letteraria, in Aa.Vv., Dall’Eremo al Cenobio, Libri Scheiwiller, Milano 1987, 279-320; G. Cavallo, Dallo “scriptorium” senza biblioteca alla biblioteca senza scriptorium, in ivi, 321-424; G. Penco, Il monachesimo tra spiritualità e cultura, Jaca Book, Milano 1991, 79-81 e 175s.

[129] Su questo si veda in generale J. Ries, Incontro e dialogo, Jaca Book, Milano 2009; sulla continuità con il paganesimo nordico rimandiamo a R. Boyer, Il Cristo dei Barbari, Morcelliana, Brescia 1992; sul permanere di elementi pagani all’interno della liturgia cristiana si veda ad esempio M. Eliade, Il Mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma 1989.

[130] Basti pensare alla festa del Natale “la più pagana di tutte le feste” istituita solo nel IV secolo in continuità con le celebrazioni del Sol Invictus (cf. J. Danielou, Miti Pagani, 30).

[131] J.R.R. Tolkien, Finn and Hengest, Harper Collins Publishers, London 1998, 14.

[132] Cf. J. Danielou, I Santi, 37-121. 133 Cf. W. Hammond – C. Scull, Companion and Guide, Harper Collins, London 2005, 439.

[134] Cf. Mt 12,40 e 27,52; 1Pt 3,19.

[135] Cf. Rm 21-23; cf. Sap 13,6.

[136] Cf. Eb 11,6.

[137] Cf. At 17,16-34.

[138] «Tutto ciò che è stato espresso correttamente in ognuno di essi [platonici e stoici] appartiene a noi cristiani»: II Apologia, 13, 4; «Tutti coloro che hanno vissuto secondo il Verbo, di cui partecipano tutti gli uomini, sono cristiani, fossero pure considerati atei come, tra i Greci, Socrate, Eraclito e i loro simili e, tra i barbari, Abramo, Elia e tanti altri»: I Apologia, 45, 2-5. Cf. II Apologia 10, 2 e I Apologia, 60 per i possibili riferimenti biblici presenti nel Timeo.

[139] «La filosofia apre la via che Cristo porta a termine»: Stromata I, c. 5,6; «[…] la filosofia prepara all’accoglimento della verità»: Stromata I, c. 16 n. 5; «[…] orbene, la verità è una, e le scuole filosofiche “barbare” pretendono ciascuna che la parte di verità che ha ricevuto sia l’intera verità»: Stromata I, c. 13, 57.Cf. Stromata V, c. 10, 66, 3 e Protrettico, 74, 7.

[140] Autore della Praeparatio Evangelii.

[141] «Bisogna contare nella Chiesa tutti i santi che sono vissuti anche prima della venuta di Cristo e hanno creduto che sarebbe venuto come noi crediamo che è venuto»: De catechizandis rudibus, 3, cit. in J. Danielou, I Santi, 20.

[142] Cf. J. Danielou, Dio e noi, BUR, Milano 2009; Id., I Santi; H. De Lubac, Paradosso e Mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano 1997; cf. lo studio su De Lubac di I. Morali, La salvezza dei non cristiani, Emi, Bologna 1999.

[143] Su questi temi e il connesso sviluppo del principio “Extra Ecclesiam nulla salus” si vedano: L. Caperan, Le problem de la salut des infedeles, Grand Seminarie, Tolosa 1934; J.A. Hardon, Salvation of Infedels, New Catholic Enciclopiedia, vol 7, 1967, 502-504; F.A. Sullivan, Savation outside the Church?, Wipf, Oregon 2002; M. Muller, The Catholic Dogma “Extra Ecclesia nullo omnino salvetur”, Hartford, Connecticut 2007; S. Mazzolini, Chiesa e Salvezza, Urbaniana UP, Roma, 2008.

[144] Cf. J. Danielou, Messaggio Evangelico e cultura ellenistica, EDB, Padova 2010; W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e paideia greca, La Nuova Italia, Firenze 1966.

[145] Cf. In II Sententiarum, d. 9, a. 8, ag 3. Cf. ivi, ad 3; In III Sententiarum, d. 24, q. 1, a. 3A; STh I, q. 62, a. 5; De Malo, q. 2, a. 11.

[146] Cf. Summa Theologiae I, q. 2, a. 2 ad 1; Summa Contra Gentiles libro I cap. 3.

[147] Cf. Summa Theologiae III, q. 8, a. 3 ad 1.

[148] Cf. ivi II-II, q. 7, a. 3, in cui si dice che la “sostanza” della fede è la medesima (esistenza di Dio e sua Provvidenza, secondo Eb 11,6) dalla prima comparsa dell’uomo in poi, per quanto vi sia storicamente una sempre maggiore rivelazione del suo contenuto (passione, morte e resurrezione di Cristo). Cf. J. Danielou, I Santi, introduzione, 19-35.

[149] Cf. In III Sententiarum, d. 18, a.6B ad 1; In IV Sententiarum, d. 45, q. 1, a. 3 arg. 5: egli, come Elia, si trova nel Paradiso Terrestre e non ancora in quello Celeste.

[150] Cf. Summa Theologiae II-II q. 2, a. 7, ad 3.

[151] Cf. De Veritate, q. 6, a. 6, ad 4.

[152] Cf. Divina Commedia, Cantica III, c. XX, 103s.

[153] Cf. ibidem.

[154] Cf. Cantica I, c. IV. La Commissione Teologica Internazionale (La speranza della salvezza dei bambini che muoiono senza battesimo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007) ha però giudicato il limbo come un’ipotesi teologica ormai superata.

[155] Si tratta del volume di C. Horstman (Hg.), Altenglische Legenden, Verlag Von Gebr. Henninger, Heilbronn 1881, 264-274, conservato nella English Faculty Library di Oxford (coll. VC272).

[156] L. Caperan, Le problem de la salut des infedeles, 592.

[157] F.A. Sullivan, Salvation outside the Church?, 150-151.

[158] Si vedano ad esempio le già citate opere di De Lubac e Danielou.

[159] Cf. Lumen Gentium, 16.

[160] Cf. Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et Ratio; Benedetto XVI, Fede, ragione e università; Francesco, Lumen Fidei.

[161] Cf. T. Honegger, A Mythology for England: The Question of National Identity in Tolkien’s Leg-
endarium, in Hither Shore 3 (2006) 13-26.

[162] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Appendice A.5, 1146.