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Undici Pagine

Tempo di lettura: 23 minuti

La notte sta finendo. Dannato! Perché mi costringi a inseguirti? Perché mi fai fare il giro della città, di questa stupida, inutile città, di corsa, senza tregua, senza un istante di respiro, alle calcagna di un fantasma che non riuscirò mai ad afferrare? Non dormo più, non mangio più, non vado più a lavorare: mi sento svuotato da ogni senso, ed è così dal giorno in cui scoprii la verità. Ironico. Quando il destino si presenta alla tua porta, dopo che tu lo hai cercato inutilmente per anni, e ti spiattella in faccia il senso della tua vita, la tua identità, la risposta alla domanda Chi sono io?, tutto ciò che sai fare è ridergli in faccia e pregarlo di allontanarsi da casa tua e dalla tua famiglia. Poi, quando avrai riso a dovere della sua idiozia, della sua follia così tranquillamente sbandierata, come se si parlasse del meteo o del risultato dell’ultimo derby, torni in salotto a guardare la nuovissima serie tivù che ti tiene incollato allo schermo da intere settimane.

Dovrei ridere della mia, di follia. Della mia dannata leggerezza. Comprendo bene il povero Tommaso; riesco a immaginare come si sia sentito quando i suoi amici gli hanno annunciato la notizia che il suo cuore sperava di udire, ma che la mente negava con forza perché oramai irrealizzabile. Posso sentire il suo sorriso amaro sulle labbra, il riso che gli sgorga da dentro come uno zampillo incontrollabile, una forza della terra, mentre lotta a mani nude con se stesso per non scoppiare in faccia a quei creduloni. Una settimana. Per un’intera settimana Tommaso si è sentito padrone del mondo. Un tempo risibile, se uno pensasse ai giorni della sua vita. Eppure un tempo eterno, dove l’apostolo incredulo si è reputato una spanna sopra gli altri, il più integro di tutti, il solo la cui mente non è caduta sotto il peso del lutto, non si è sbeccata come un vaso d’argilla troppo duramente colpito e per questo crepato. Ma una settimana finisce in fretta: e presto Tommaso capì di essere stato il più cieco di tutti, e il suo riso si trasformò in lacrime amare.

Io sono san Tommaso. Anche io ho riso e anche io, in seguito, ho pianto molto. La notizia che mi hanno dato, l’ho scacciata a cuor leggero; ma la parola è irrimediabile, e una volta pronunciata nulla è più come prima. Nelle notti che seguirono, terribili notti di attesa ed angoscia, dove il sonno mi fuggiva come si fa con un appestato e il riposo non sostava mai davanti alla mia soglia, quella parola detta mi scavò un buco nel petto, passò nella mia mente trapanandola, crepò e sbeccò il vaso della mia sicurezza. Perché, perché quel folle era venuto proprio a casa mia, e proprio quella sera? Non ci conoscevamo, lo ha ammesso anche lui; ed era persino straniero di questa città, anzi, era straniero in tutte le città costruite in quell’epoca storica che lui, a scuola, aveva amato sopra tutte le altre. La sua è una maledizione così ridicola che, in qualche modo, l’ha trasmessa anche a me.

Dovrei tagliare per una laterale o seguire il corso del viale? Su quale strada impiego meno tempo? Dannata folla! Com’è possibile che ci sia ancora tanta gente in giro? Si levi dai piedi! Perché camminate così piano? Da dove venite? Da un pezzo è passata l’ora di coricarsi, e quella in cui il nottambulo nasconde il viso sotto le lenzuola è ancora in là da venire. Perché allora c’è tanta gente che mi intralcia il cammino? Perché… oh!

Forse ho capito. L’ha mandata lui. Non vuole che io lo trovi, che io gli parli. Non vuole che ci affrontiamo. Codardo! CODARDO! Mi senti? Lo so che mi puoi sentire! Li vedi questi tuoi burattini? Quell’uomo distinto in completo gessato, quella prostituta che invano trotterella dietro l’integerrimo padre di famiglia, quell’uomo stralunato con grandi occhiaie e un corvo appollaiato sulla spalla? Li vedi? Bene! Non mi fermeranno! Capito? Sono inutili! INUTILI! Hai davvero poche frecce nel tuo arco, bastardo. Ti predichi un Robin Hood, ma non sei che un dilettante che gioca con dei bastoncini e delle ventose, il Guglielmo Tell dei poveri. Io li schivo, questi tuoi pupazzi! Io li spintono! Ignoro le loro grida, i loro insulti, ringhio ai loro sorrisi! Sputerei volentieri loro in un occhio, se solo ne avessi il tempo!

Il tempo. Maledetto, maledetto demonio! Con tutti questi pensieri, questo lucido e folle dialogare con me stesso, mi stai facendo perdere tempo! Vile! Per ogni parola che si lega ad un’altra, nell’irrefrenabile flusso del mio pensiero malato, tu guadagni un pochino di spazio, un centimetro di più, un passetto che separa la mia furia dalla tua crudeltà. Ma non finirà così! Non giocherai ad Achille e alla tartaruga con me! Perché tu non Achille, ma la lepre sei, l’esopica lepre, che prima o poi si sentirà talmente rilassata e al sicuro da addormentarsi in un angolo! E io esplorerò ogni angolo, ogni anfratto, ogni piega, ogni mattone di questa maledettissima città! TI TROVERÒ, INFAME! Mi hai tolto tutto, mi hai tolto la mia vecchia vita: ora esisto solo per trovarti, per braccarti, finché non ti avrò davanti a me, innocente come quella sera, fintamente ignaro di ogni cosa. Ti troverò.

Basta pensare. In qualche modo ho aggirato la folla e sono scampato alla trappola che tu hai intessuto dentro me stesso: l’insegna al neon verde acceso mi indica che sono arrivato a destinazione. Ah! Decine e decine di campanelli! Quanti inquilini ha messo su questo palazzo, negli ultimi due giorni? O ci sono sempre stati? Con te non si può mai sapere, brutto demonio. Penserò sempre il peggio di te. Vediamo… Harris… Gogo… Didi e famiglia… ma quanti ce ne sono? Estella… Carmilla… Baxter, finalmente! Baxter, Baxter, Baxter…

Chi è? Sono io! Fammi salire!

Io chi? Io, che diamine! Sono giorni che ci sentiamo, mattina e sera, al telefono o nell’androne di un palazzo, al bar o all’angolo della strada, per l’amor di Dio!

Ha aperto. Grazie, Baxter. Le scale… oh, oh! A quale piano abitava Baxter? Perché mi è fuggito di mente? Perché… ti diverti? Ti diverti, cretino?! Ti diverti a giocare con la mia mente, con la mia mente di disperato?! Ma ormai sono arrivato da Baxter, ormai. Lui ti troverà. Ti ha già trovato. Il migliore sulla piazza, lui. Costa un occhio della testa. Credi che mi importi del denaro, credi che mi curi dei debiti, io che non vedrò l’alba di domani se non riesco a trovarti? Credi che veda le cose allo stesso modo di prima? No! Ho solo una direzione, ed è quella che porta a TE.

Baxter, che piacere! Dimmi, dimmi… lo so che ti ho svegliato, ma capiscimi… lo so che è notte fonda… sono disperato, Baxy… vedi, lui… il mio tempo sta per finire… dimmi che hai novità… dimmi che… come? Non ne hai?

Guardo il volto rassegnato di Baxter. La stanchezza gli stravolge i connotati. Per un istante mi pare di ravvisare, nella sua espressione mesta, il capovolgimento di un riso tranquillo e signorile, contegnosamente trattenuto e per questo ancor più odioso. Ma no, ma no! Ma che vado pensando? Baxter è il migliore sulla piazza. Non si può corrompere con le noccioline, non si può…

Non si può? O si può? Sì? Sei stato tu? Ancora tu?!

Quando uscirai dalla mia vita? Perché non ti accontenti di lasciarmi andare, di fare in modo che queste ultime ore per me siano completamente ed essenzialmente ore di libertà? LASCIAMI ANDARE! MOSTRO! Lascia andare me, Baxy, la gente… esci dalle nostre vite! Ti immagino, lontano, a sorridere di gusto, mentre tiri i fili che pazientemente, nelle lunghe ore di solitudine con te stesso, hai tessuto per questa città a te straniera, per quei poveracci a te estranei che ora si agitano come grottesche marionette sotto le tue dita dai movimenti convulsi… ti stancherai mai di tormentarci? Povero, povero Baxter! Guardalo! Con quella sua sincera mestizia, la delusione per la delusione del suo amico… forse crede di essere partecipe del mio dolore… o forse così vuole farmi credere. Forse…

Forse Baxter non è così dissimile da me. In fondo, io e lui ci siamo conosciuti per cercare te; la nostra debole e fragile amicizia (che è più di un rapporto tra gentiluomini in affari ma manca di quella complicità fraterna di certe relazioni, anche le più occasionali e senza seguito), la nostra fragile amicizia, dicevo, è nata nell’istante in cui ho pronunciato queste parole: Devi trovare lui. Forse… oh, mio Dio! Forse lui era già pensato per trovarsi sulla mia strada, per stringere sottilmente gli occhi in un cipiglio di determinazione, e per mettermi una mano sulla spalla masticando le parole: Lasci fare a me.

Poche semplici parole, che però lui aveva già pronte sulla bocca, già traboccavano dalle sue labbra distinte, già il ronzio del loro suono ancora inespresso riempiva la stanza immersa nel fumo di tabacco: era tutto già pronto, già predisposto, già scritto! Baxter, quel buon diavolo di Baxter, segretamente stava facendo il tuo gioco, dannato Mangiafuoco! Il povero Baxter ha creduto di aiutarmi, di promulgarsi in sforzi sinceri per questo cliente oramai sul punto di crollare per la disperazione, ma in realtà recava già il marchio del suo fallimento (il TUO marchio schifoso) in quel suo sorriso signorile e distaccato. Quel suo sorriso che anche ora esibisce, capovolto, nella smorfia di dispiacere con cui se ne sta lì, davanti alle tende svolazzanti del terrazzo, in silenzio. Già… perché non dice nulla?

Osservo cautamente, con circospezione, il corpo di Baxter immobile davanti a me. Diavolo! Non si muove proprio! Sarà mica morto? … Ma no, ma no, ecco che respira, il petto si alza e si abbassa sotto la vestaglia quadrettata con un moto lieve ma regolare… di certo prima mi era sfuggito, non dormo da giorni… oppure no. Oppure davvero, prima, Baxter aveva smesso di respirare, e io l’avevo scoperto. Come la comparsa di un dramma che, mentre i protagonisti si affannano in primo piano, può permettersi di deviare dalla traccia del copione, consapevole che tutti lo vedranno e al tempo stesso continueranno a non vederlo. Una comparsa. Questo mi è sempre sembrato Baxter, ma solo ora ne prendo coscienza. Io il protagonista, tu il nemico… e Baxter uno dei tanti, forse un comprimario, ad essere generosi, eppure uno dei tanti, un estraneo, un escluso dalla lotta mortale che accomuna me e te.

Un brivido mi corre lungo la spina dorsale. Ecco, lo ha rifatto! Ha smesso per un istante di respirare! Ha approfittato del mio perdermi nei miei pensieri per rilassarsi solo un momento, ma i miei occhi stanchi e frenetici per la caccia lo hanno smascherato. Una comparsa! Una COMPARSA in questa folle recita senza capo né coda, anzi, con un capo ed una coda ben fissati e determinati! E CHI mai può aver messo sulla mia strada questa comparsa, il caro, vecchio Baxter? A CHI mai egli risponderà? CHI mai sarà il suo capo?

Guardo ancora una volta Baxter, immobile di fronte a me. Anche lui mi guarda, e ha la stessa espressione malinconica che gli si è cucita addosso da quando sono salito in casa sua. Una maschera di ottima fattura, ma pur sempre maschera resta. Eccolo qua, oh! Finalmente si muove! Sa che l’ho scoperto, sa che il suo gioco è saltato! Non sa che fare, è disperato: e chiede consiglio a te. Avanti, avanti, consiglialo! Digli cosa deve fare! Non provi pena per il suo sguardo smarrito, tale e quale all’agnello del Caravaggio incastrato nella macchia di rovi? Guarda! Gli tremano le labbra! Non ha più la PAROLA pronta, non più! Non gli hai ancora scritto le prossime parole! Ora, ora devo colpire!

Senza rancore, Baxter. Portagli i miei saluti!

Mi slancio, incespico per un attimo sul tappetino (trovata inutile!), lui mette avanti le braccia, il viso pietrificato dall’orrore… mi curvo in avanti, mentre un grido selvaggio esplode dalle mie labbra… un tonfo, una resistenza che cede… un fruscio bianco e veloce, un improvviso soffiare di vento… il silenzio sgomento del funambolo, nell’istante eterno che precede la caduta…

Mi rialzo, col fiato corto. Fa freddo, ora. Le tende non velano più il terrazzo: sono state strappate, e qualche gancio ligneo è caduto tintinnando sul pavimento del salotto. Baxter non c’è più. Qualcuno, dalla strada, lancia un’esclamazione di sorpresa. E che sarà mai? Ce lo si poteva aspettare! Nel complesso scacchiere della lotta tra me e il mio folle nemico, l’investigatore non era che una pedina destinata a cadere per l’intrattenimento di qualche divinità, folle al pari di lui, che si è divertita a guardare la macchia di sangue e le ossa spappolate di quel corpo spezzato ed irriconoscibile che è andato a sfondare il tetto della Renault posteggiata qui sotto… Nient’altro che intrattenimento. Ed è riuscito bene: questo inconveniente mi ha trattenuto anche troppo dalla mia ricerca. Osservo la pipa del precedente occupante di questo appartamento e la prendo in mano: la rigiro tra le dita e ne strofino i bordi, lasciando che una striscia sottile e nera scorra lungo il polpastrello del mio indice.

Baxter… alla fine il tuo senso lo hai trovato. Facendomi perdere tempo, pazienza e sanità mentale, certo, ma hai pur sempre raggiunto il tuo scopo. Sei uscito di scena come meritavi, al momento giusto e dopo il giusto aumento di climax. Mentre a me cosa resta? A me, che ancora mi agito su questo palcoscenico vuoto? A me, che fu concesso, per un sadico compiacimento del mio avversario, un passato, dei genitori, un’istruzione, un ruolo di spicco nella società, degli svaghi, un amore teneramente custodito… cosa resta, ora che SO?

Tutto ciò che sono, tutto ciò che ho sempre sognato di essere… non è cosa mia. È finto, è tutto finto! Tutto già pensato, già rimuginato, già vissuto sulla pelle e nella mente e nell’immaginazione di qualcun altro! Cosa si può, davanti all’evidenza che siamo solo dei RIFLESSI, delle caricature, dei di-meno di un di-più, più completo, più totale, più vero… cosa si può, davanti a tutto questo, se non la FOLLIA e la FURIA? Io sono il Tommaso al quale è apparso Cristo a porte chiuse; ho perduto ogni certezza, ho perduto l’attimo, ho smarrito la ragione e la speranza… anche a me è venuto a trovare il mio Cristo, il mio Creatore, tutte le mie attese e tutte le mie speranze. Venne dai suoi, e i suoi non lo hanno accolto. Gli risi in faccia e gli voltai le spalle, cercando di dimenticare e ignorare le parole che mi disse. Ma non posso. Io sono parola. Io sono già detto. E solo ora mi si schiude, nel suo intero, terribile significato, il SENSO delle sue parole signorili e sorrise: Io sono il tuo scrittore. Hai undici pagine di vita. Fanne buon uso.

Per strada c’è già una piccola folla di gente. L’allarme antifurto della Renault per lo meno ha smesso di squillare, concedendo un po’ di tregua alle mie povere orecchie. Chi sa perché, le scale non mi sono sembrate tanto infinite, nello scenderle. Ignoro i nomi di chi abita quel palazzo: non mi importa più se siano centinaia, o se sia stato solo un tiro di pessimo gusto (come tutte le tue trovate, del resto). Scivolo tra la folla come un’anguilla, le mani in tasca, le spalle ferme, mentre aspiro a grandi boccate il tabacco dalla pipa che fu di Baxter.

La notte sta finendo. Lontano, dietro il profilo delle colline, si intravvede già quel chiarore che precede la levata del sole. Potesse starsene a letto! Potesse fermarsi tutto, e interrompersi quel flusso di caratteri e inchiostro che, battuta dopo battuta, linea dopo linea, sancisce sempre più l’avvicinarsi della FINE!

Ma non si può. Si può soltanto andare accapo.

Così, per un’innaturale volontà di imitazione, per quell’istinto di identificazione in un proprio padre o nemico, vado a capo anch’io. Basta lamentarsi, basta piangersi sopra, basta maledirti. Sempre maledirti. Andrò a casa di Bianca e le confesserò ciò che provo. Le svelerò i retroscena dei nostri istanti insieme, quel sovrasenso di estasi e contrizione di cui il mio cuore traboccava, quell’atemporalità che ci benediceva nelle nostre mattine al parco o nelle passeggiate lungo il fiume al tramonto. Le dirò che l’amo. Che l’ho amata per anni, di nascosto, in silenzio. Che ho protetto questo mio segreto dalla dura riprova della realtà, ma anche che l’ho conservato così a lungo da farlo ristagnare. La purezza e il tempo sono avversari naturali. Ora non ho più tempo, e forse ritroverò l’antica, virginale vergogna nel guardare Bianca in quei suoi occhioni azzurri e nel sussurrarle le parole che ho sempre temuto di dire.

Parole. Anche qui si tratta di parole. Non posso fare a meno di pensare che questo accostamento non sia casuale. Che ancora una volta tu, nascosto avvoltoio, abbia messo un po’ di te in questo mio sentimento. Che intenda ricostruire una situazione analoga a quella in cui ti sei presentato a me: di sera, sulla porta di casa, con la tivù che rumoreggia alle spalle dell’inquilino e un grande senso di straniamento che permea l’intera sequenza. Beh, non ci provare! Non mi toglierai anche questo momento!

La dichiarazione a Bianca è mia, mia soltanto! Lasciaci in pace! Non l’ami tu! Io, io la amo! Io! IO!

Continuo a camminare stringendo i pugni. I rumori del centro sono ormai distanti e indistinti alle mie spalle, mentre il tranquillo volto della periferia si dischiude davanti ai miei passi. Anche il volto di Baxter sta sfumando dalla mia memoria, a riprova del fatto che era un altro dei tuoi subdoli trucchi da prestigiatore da due soldi. Il pallore rosato del cielo ancora scuro rischiara le graziose villette man mano che lo sguardo vi cade sopra.

Numero quattro… numero… numero sei… devo accelerare il passo… numero otto. Numero otto e poi… e poi…

Eccola! La deliziosa casetta in bugnato arancio, con il tetto ornato da rampicanti e il prezioso giardino disseminato di aiuole e portichetti… la casa dei pomeriggi di studio e delle serate dopo il lavoro… la casa della tensione mai tagliata, sempre vibrante, quando, oltre a me e lei, nessun altro c’era… la casa dove, probabilmente, finirò i miei giorni, pure se non come avevo sempre sognato. Ma bisogna farsene una ragione. La casa di Bianca.

Senza avvedermene sono arrivato davanti alla sua porta. Intorno a me il portico si nasconde pigramente nella penombra, senza che la luce di un faretto mezzo ammiccante riesca a dissipare totalmente gli ultimi veli della notte. Da qualche parte, nel prato, sento una cicala frinire. Non posso fare a meno di domandarmi se c’entri qualcosa in tutto ciò; se anche lei sia stata messa lì a bella posta per creare atmosfera, mero strumento in mani spietate, che non si curano di un suo passato o di un suo avvenire, oppure se sia cosa a sé stante, viva, vera, lontana da tutto questo. In ultima istanza, mi chiedo se questa cicala possa conoscere ciò che a me è negato dallo scorrere inesorabile delle lancette: salvezza.

Quasi in risposta ai miei pensieri turbinosi, la cicala smette di frinire. È un attimo perché mi accorga di te.

Mi sale un moto di rabbia. Ti ho evocato io? Oppure sei sempre stato qui? Perché ora non te ne vai e mi lasci in pace, almeno ora che sono a un passo dal dichiararmi alla ragazza che amo? Va’ via! Tanto tra poco sarà l’alba, e io e te dovremo per forza tornare a vederci. Ma questo tempo è ancora mio! MIO, capito? Lo tratterrò con le unghie e con i denti, mi ci aggrapperò come fa il naufrago con la tavola di legno del relitto, dai bordi scheggiati in ricordo di qualcosa che era intero e ora, invece, irrimediabilmente spezzato. Tu sei la tempesta che mi vortica intorno, ma io non mi lascerò trascinare negli abissi!

NO! Non ancora! Prima di andarmene, ho ancora il fiato per gridare quello che da anni si trova stipato nel profondo del mio cuore! Per lasciarlo andare, finalmente a briglia sciolta, non più legato, e osservarlo con stupore mentre si eleva verso il cielo! E sai una cosa, Autore dei miei stivali? QUESTO grido non riuscirai a togliermelo!

« Ti amo, Bianca! »

Lo dico così, con la mia voce, senza pensare. O forse proprio per averci pensato. Il cuore mi batte come un tamburo contro il torace, sento che sta cercando di allargarsi, di farsi spazio, ma di spazio non ce n’è; ci sono le costole e i polmoni, ma il cuore non si cura di loro: batte, batte, batte ancora, e ad ogni battito è un dolore immenso e un grido di sofferta gioia.

L’ho detto! Ho detto quella frase, quelle parole! Che farai ora, demonio? Che farai di me? Sono libero! Le ho detto che la amo! La amo, la amo, LA AMO! E sono pronto a ripeterlo altre mille volte! Bianca! Quanto è dolce il suo nome sulle labbra! Bianca!

« Bianca! Bianca! Oh, Bianca! »

Ho gridato ancora, nel silenzio sonnacchioso della via. Probabilmente qualcuno se l’è presa e mi sta augurando ogni sorta di maledizioni mentre bofonchia ancora mezzo in un suo mondo di sogni privati. Ma che mi importa? Comparse, altre comparse! Anzi, no, meno, meno: pensieri senza corpo, a cui quel pigro diavolo non avrà nemmeno intessuto una storia passata o un ambiente in cui portare avanti le loro false vite. Sì, false! Mi senti, tu che gridi dalla tua finestra lontana? Non mi farai tacere! Falsi, falsi, siete falsi, lo siamo tutti quanti! Ma io so! A me lo è venuto a dire lui! Con me ha parlato, bifolchi! Con voi…

Un momento. Con me ha parlato. Con me. Perché con me? Perché mai è venuto da me, quella sera? Perché mi si è presentato? Perché si è sentito in obbligo di svelarmi, così all’improvviso, la verità che aveva accuratamente nascosto dietro le pieghe di questo simulacro di mondo? Mi senti? Mi senti? Parlami! Perché l’hai fatto? Forse… ti sei sentito in colpa per la sorte che mi hai assegnato? Forse un briciolo di te, quel frammento che tu hai infuso in me, ha morso la tua coscienza insensibile? Cos’è cambiato? Perché io sì e gli altri no?

Non sarà che… non sarà che mi vuoi bene?

No, non ha senso. Mandare a monte la mia vita, scardinare i miei nervi, rendermi un folle che si aggira per la città in preda ai suoi deliri da ubriaco… non è voler bene. No, non lo è.

Eppure… eppure perché? Che altra ragione aveva? Scientifica, forse? Sono il primo a cui ha parlato? Mi senti? Sono il primo? Perché non mi ascolti? Perché taci? PERCHÉ TACI?!

Che sciocco. L’ho mandato via. Ho gridato il nome di Bianca. Ho gridato l’amore per lei. Allora perché Bianca non è qui? Perché, nella luminosa penombra che precede la salita del sole, io mi trovo, ancora una volta… solo?

« Bianca » grido ancora. « Bianca, Bianca! »

Un rumore di passi, dietro la porta. Passi lenti e strascicati, morbidi, come un paio di ciabatte. Un vecchio paio di ciabatte rosa, a forma di fragoline; un vecchio regalo fatto in tempi non sospetti da un caro amico, che tanto aveva rimuginato su quale colore fosse il più adatto, quale pelo il più carezzevole per quei piedini di fata, quale fantasia al pari di lei, che era la più alta delle sue fantasie.

« Tu? »

La voce non è che un soffio lieve che trapela da dietro il legno opaco della porta. Un perfetto esempio di paraclausithyron, ma all’incontrario: stavolta è lei che sussurra dolci parole a lui, cioè, a me. Il cuore riprende a martellare dolorosamente contro il petto: non riesco a parlare. Vorrei, ma non esce alcun suono. Lontano, da qualche parte, nei campi, si leva il canto di un gallo.

« Bianca? »

La porta si apre: Bianca è qui! Ancora assonnata, non ancora truccata, coi capelli impiastricciati in nodi ribelli e gli occhi appiccicati dai sogni interrotti. La guardo, e tutti i miei mali di prima svaniscono come neve al sole. La mia follia si acquieta. E io resto lì, a guardarla, senza parlare.

« Sei proprio tu » mormora lei, mentre un vago sorriso malinconico si fa strada sul suo viso.

« Sì. Eccomi »

« Ma che fai qui? Sai che ore sono? »

Sì, sì che lo so. So ogni momento di queste ore; ogni istante di questa notte non ha più segreti per la mia mente stanca e irrequieta. Il canto del gallo che annuncia il sole mi ha riportato alla memoria, tutte insieme, le fatiche di queste ultime settimane, i sogni agitati, gli sforzi vani, i lunghi pianti notturni. Tutto insieme. E ora so, con rinnovata lena e coscienza, che tutto è stato inutile. Non si può strappare un secondo alla morte.

Ma persino ora, prossimo alla conclusione della storia mia e di questa stupidissima città, non posso non pensare che dalla vanità qualcosa possa ancora salvarsi. È BIANCA che si può salvare. È l’amore che ho nutrito e coltivato per lei in tutti questi anni. O, per lo meno, l’amore che ho creduto di coltivare, chiuso com’ero nella fantasia malata di uno scrittore.

« Bianca… devo dirti una cosa… »

« C’entra la pipa? »

Pipa? Quale pipa?

Ah, questa qui! La pipa che ho sottratto all’appartamento di Baxter! L’ho scordata a fior di labbra, pendente, con le braci spente da cui ancora si leva una sottile spirale di fumo che vagola per il portico. Ma è la pipa, o la nebbia rugiadosa del mattino?

« Ah, questa pipa »

« Non avrai ricominciato a fumare? »

Fumare? Io… che fumo? E quando mai ho incominciato?

« Bianca… io non… »

Mi interrompe con un gesto stanco della mano. Ride silenziosamente, quando tutti gli angeli del cielo le gridano di piangere; e tiene gli occhi chiusi, ermeticamente chiusi, ad imitare le saracinesche delle botteghe addormentate nella città lontana. Ride, Bianca, e io non so perché.

« Perché ridi, Bianca? »

« Nulla. Mi sono confusa »

No, non è nulla. La sua voce tradisce che non è nulla. Il fantasma della sua voce si diverte a torturarla, come sempre fa il demone della perversità con le vittime su cui pone gli artigli. Qualcosa stringe il cuore di Bianca, soffocandola, avvinghiandola in una presa di morte; quello stesso qualcosa che la fa soffrire, che sempre l’ha fatta soffrire, che sempre, in passato, ha venato di malinconia la sua dolce voce di angelo.

« Che cos’hai, Bianca? »

« Nulla. Ti ho confuso »

« Mi hai confuso? »

« No! » grida, spalancando gli occhi: la sua paura la fa assomigliare a una cerbiatta, una svelta ed innocente cerbiatta, che, braccata dai cacciatori, è finita per mettersi spalle al muro con la rupe. « No! Io! Io mi sono confusa! Io! »

« Mi hai confuso? » ripeto.

« Non ti ho confuso! Io! Io mi sono confusa! »

Spinto da un’improvvisa, abissale paura, prendo le sue mani nelle mie. Gli occhi di Bianca sono come enormi pozzi bui, il cui bordo è costellato di lacrime. Il cuore mi batte ancora nel petto, ma non mi reca più alcuna gioia; per ogni battito, per ogni spinta, sento avvicinarsi la fine, la fine incolore che segna il margine della pagina, il salto senza ritorno impostoci dalla volontà crudele, il chiaro levarsi del sole sul nero profilo del mondo.

« Bianca » dico, e le parole mi pesano come macigni. « Tu mi hai confuso. Per chi? Per chi mi hai confuso, Bianca? »

Mi guarda in viso e trema. La guardo attraverso la sottile e impalpabile caligine che sale dalle ceneri del tabacco.

« C’entra la pipa? » dico, mentre un brivido ghiacciato mi scuote le ossa.

Annuisce lentamente, solennemente, come ci si aspetta da un emissario del Fato.

E io comprendo che le mie labbra, le labbra di un assassino, stringono la pipa che fu di Baxter, le mie labbra che mai avevano toccato l’agrodolce sigaretta, o abbracciato la canalina di una pipa.

E ricordo Baxter, l’investigatore, il mio meno di un amico più di un gentiluomo, e all’improvviso conosco di lui le motivazioni, le ragioni del suo tradimento, le difficoltà in cui versava e il profondo, sincero dispiacere che ha provato nel vedermi entrare nella sua casa-ufficio.

E tante altre cose mi appaiono chiare come lo dovevano essere all’inizio dei tempi: il canto del gallo… il sole che sorge… io che apro il mio cuore a Bianca, troppo presto… troppo presto… o troppo tardi… e conosco il fantasma che infesta l’anima di Bianca, e capisco (ma è troppo tardi, è troppo tardi!) che non sono mai stato solo. Non sono mai stato il solo che, una sera come tante, ha sentito suonare il campanello e si è alzato a rispondere.

Lascio le mani di Bianca, mi sfuggono e scivolano come acqua tra le dita; e appare, alle spalle di lei, una figura abbigliata nella vestaglia di Baxter, che fuma una pipa come il buon Baxter (la stessa pipa che mi pende dalle labbra) e che sorride affabilmente, con un fare da gran signore.

Cingi i fianchi di Bianca con le mani e mi guardi senza smettere mai il sorriso.

Mi dici, ridendo, che sono arrivato tardi.

Che sì, ti ho trovato, ma che ormai è troppo tardi. E, davanti ai miei occhi smarriti e ondeggianti, mi mostri l’anello che Bianca tiene al dito e che cerca di nascondere con un sorriso capovolto.

È l’alba. La lunga notte è finita. Un suono nuovo sorge dai campi e accompagna il canto del gallo: è un fischio, un fischio lungo e imprecisato, acutissimo, che desta la città nel suo ultimo, definitivo risveglio. L’espresso delle sei e cinquanta. Puntualissimo, come alla fine di ogni notte. Guardo Bianca ma non riesco a vederla: dietro la sua apparenza di spettro giganteggi Tu.

Mi guardi come Cristo guarderebbe san Tommaso. Mi guardi, e non mi sento più il cuore, non sento più le voci.

Il fischio del treno ha assorbito ogni cosa. Non l’avevo mai sentito così bello. Alla fine mi tocca sorridere anch’io, e ridere di gioia e corrergli incontro come si corre verso il mattino.


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