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Il Bouquet di Violette

Tempo di lettura: 13 minuti

1 novembre, 1938.

Erich depose momentaneamente il mazzo di calle e crisantemi vicino alla tomba dei suoi cari nonni, tirandosi poi su le maniche ed inginocchiandosi. Afferrata la spugna dal secchio d’acqua e bicarbonato, si mise a strofinare la lapide marmorea, cercando di non andare contro all’imponente croce in ferro che suo padre aveva installato.

D’altra parte, il cimitero della Collegiata a San Candido è caratteristico per le sue pittoresche croci in ferro vicino alla pietra sepolcrale, rendendolo una meta turistica affascinante per gli amanti del gotico. Tuttavia, Erich non si era dimostrato particolarmente contento della scelta del padre; non tanto per la scomodità durante la pulizia della tomba, quanto più perchè gli dava l’idea di rendere i suoi nonni una merce, di non dare il giusto valore a un luogo infestato ormai dagli studenti viziati di Lienz con i quali era in corso all’università.

“Le tombe non sono piedistalli, ma luoghi di culto. I morti si ricordano, non si mettono a recitare su un palco.”

Questo era il suo motto, ma il suo rispetto per i defunti non si fermava alle parole. Andava a trovare i suoi parenti sepolti nella sua città ogni volta che finiva le lezioni e, ogni primo di novembre, prendeva il treno fino a San Candido, di sua spontanea volontà, per non far cadere nel dimenticatoio i suoi nonni materni: i genitori erano troppo indaffarati con la loro fabbrica di mobili mentre il fratello maggiore studiava in Francia. Lui era l’unico che poteva permettersi un giorno libero per fare un viaggio del genere. Anche se, forse, la loro era solo noncuranza.

Aveva appena cambiato i vecchi fiori, quando l’atmosfera si fece cupa: la nebbia stava iniziando a fumare tra le croci come ghiaccio secco e la Luna era il riflettore. Erich si sistemò le maniche e riprese il suo orologio dalla tasca interna della giacca. Controllò l’ora: le sei e un quarto. Era novembre, quindi non si stupì più di tanto che iniziasse ad inscurirsi.

Nonostante la razionalità del suo pensiero, stranamente, non si sentiva a suo agio: la nebbia iniziava a diventare sempre più fitta e sempre più bianca, rendendolo suo prigioniero. Non era densa da impedirgli completamente di vedere oltre il suo naso, ma abbastanza da offuscargli la visuale e fargli ghiacciare i nervi.

Rigido come uno dei cadaveri che lo circondavano, indietreggiò lentamente fino a trovarsi con le spalle contro il muro della chiesa, percependo del vento freddo sibilare davanti a lui. Gli era sembrato di intravedere una figura nella nebbia: dei lunghi capelli trasparenti che si confondevano con il paesaggio slittavano tra le tombe e poi sparivano; soffiava, volava intorno alle croci, si camuffava con la nebbia.

Erich, dannata curiosità mortale, avvicinò il capo per poter comprendere cosa gli si fosse manifestato davanti. Ci volle un po’ prima che i suoi occhi si abituassero, ma, finalmente riuscì a distinguere quel essere dalla bruma che lo abbracciava: era sulla tomba dei suoi nonni. Lo spirito guardava il secchio che Erich non era riuscito a spostare, poi la lapide, poi la croce. Sembrò quasi sospirare quando vide il bel mazzo di calle e crisantemi che Erich aveva comprato. D’un tratto, alzò il capo e lo notò. L’austriaco ritornò spalle al muro, sudando freddo. Lo spirito lo osservava. Questi si avvicinò lentamente, senza fretta, permettendo ad Erich di scrutarlo meglio: i boccoli ondeggiavano come un’unica cascata sulle sue spalle; camicia con colletto drappeggiato; pantaloni malconci e scarpe logore; occhi privi di bulbo, al cui posto c’erano due solchi bianchi; naso delicato; niente bocca. Il fantasma si fermò abbastanza distante, quasi come se avesse cura di non spaventarlo. Gli guardò le mani, poi girò il capo per guardare nuovamente il secchio, poi di nuovo Erich. Il suo volto si fece terribilmente triste. Fluttuò tra le tombe, senza distogliere lo sguardo dall’umano.

Erich non capiva. Seguì i suoi movimenti con gli occhi, fino a quando lo spirito decise di sedersi su una lapide. Nessuno dei due aveva intenzione di interrompere il contatto visivo. Il fantasma incrociò le gambe e fece un cenno al ragazzo.

L’austriaco si sentì gelare il sangue, ma notando intenzione alcuna da parte dell’entità di ferirlo, si allontanò lentamente e con cautela dalla sua posizione, pronto a fuggire al primo segnale di pericolo. Arrivò a pochi metri dal fantasma, ispezionando che cosa aveva intorno. I suoi occhi caddero naturalmente sulla lapide, se lapide si poteva chiamare quella torretta lasciata in pasto alla natura. Provò a leggervi le incisioni, ma il muschio si era ormai mangiato i solchi dello scalpello e non riusciva a decifrare i caratteri del nome. Si avvicinò ancora, incentivato dallo spettro. Erich, tuttavia, ancora non capiva cosa vi fosse scolpito.

“Questa è la sua tomba, non c’è dubbio.”

Pensava il ragazzo mentre scrostava il muschio con le dita, fino a quando il fantasma non gli portò il suo secchio e la sua spazzola, appoggiandoli in parte a lui.

-Vuoi che ti pulisca la tomba?

Chiese Erich. Lo spettro fece un gesto affermativo con la testa congiungendo le mani in preghiera.

Erich si mise dunque a spazzolare via il muschio, ripulendo il granito sotto lo sguardo incuriosito dell’entità. Stranamente, ci mise meno di quello che credeva: erano solo le sette meno dieci. Il fantasma si illuminò lievemente ed una bocca comparve sul suo volto.

-Grazie! Grazie infinite, ragazzo! Finalmente posso parlare!

Erich scattò in piedi.

-Oh, no! Non temere!

Disse lo spettro, tornando a sedersi sulla lapide appena pulita.

-Non ti voglio fare del male. Volevo solo una mano.

-Be’…prego…

Rispose Erich. Lesse l’epitaffio.

-Florian Rothschild?

-Sì, sono io. Lei come si chiama?

-Erich Moser, ma dammi del tu.

Continuò a leggere.

-”1838-1861”. Abbiamo poi la stessa età. Certo, se fossi nato anch’io nell’Ottocento.

Florian rise.

-Sei simpatico, Erich! Come mai non ti ho mai visto? A giudicare dalla cura con cui pulisci le lapidi, sembri pratico.

-Vengo qui ogni anno per ricordare ed onorare i miei nonni. Io, piuttosto, non capisco come abbia fatto a non incrociarti prima, se sei sempre qui.

-Posso palesarmi solo all’orario della mia morte, non prima e non dopo.

-Per quanto tempo?

Florian fece spallucce.

-Quanto mi pare, ma sono costretto a sparire prima che il Sole sorga.

Erich osservò meglio la lapide: nessuna croce enorme come le altre tombe, ma un semplice rettangolo di granito con inciso sopra, molto rudemente, nome; cognome; data di nascita e di morte.

-Come mai una tomba così? Niente fiori? Niente cero? Te li hanno rubati?

Il fantasma si intristì.

-La mia tomba è sempre stata così. Lasciata all’incuria e al dimenticatoio.

-Perchè? Hai fatto qualcosa oppure ti è successa una disgrazia?

Chiese Erich incuriosito, sedendosi a gambe incrociate davanti a lui.

Florian sospirò ed iniziò il suo racconto:

-Sono nato in una delle famiglie più ricche e rinomate di Vienna. Mia madre mi faceva lezioni di pianoforte e la cosa mi divertiva parecchio, trovandolo anche un metodo alternativo per legare con lei. A sedici anni, mi feci strada nell’ambiente e diventai un popolare pianista. Iniziò così la mia carriera: ricevevo incarichi per tutta l’Austria, facendo solo aumentare il patrimonio e la fama dei Rothschild, girando il paese e l’Europa grazie al mio talento. I primi anni, la fama sembra meravigliosa: hai i soldi per fare quello che vuoi, ti invitano agli eventi più esclusivi, mangi caviale e champagne almeno una volta al giorno, hai una folla di persone disposte a degradarsi per un ballo con te o a dare la vita per un bacio. Più il tempo passa, tuttavia, più diventa un morbo che si espande dentro il tuo cervello e quello dei tuoi cari, deviandoti dai tuoi ideali e dalla moralità. Iniziai a detestare il pianoforte e quella vita: l’esercizio fino al collasso, la finta premura delle persone, la sensazione di essere diventato un prodotto su uno scaffale per ricchi desidersi di mostrare che sono più colti o più alla moda di altri. La mia famiglia progettava la mia vita: con chi dovevo uscire e da chi dovevo allontanarmi, cosa dire e come parlare, come vestirmi e che tono utilizzare per “mantenere lo status” ed evitare di “crollare nel degrado e nella miseria”. Tutto ciò mi schiacciava, divorava, dilaniava. Fortunatamente, un giorno, mentre cercavo dei nuovi spartiti in una libreria, i miei occhi caddero su un libro diverso da qualsiasi altro libro che io avessi mai letto: un manuale di botanica e florigrafia. Mi innamorai perdutamente di quel nuovo e meraviglioso linguaggio, della sua delicatezza e della sua purezza. I bouquet che mi donavano finiti gli spettacoli erano diventati oro, la mia stanza si era riempita di colori e del pianoforte non mi importava più nulla. Le mani che prima accarezzavano l’avorio, ora toccavano la ricca terra ed i delicati steli delle penose calendule o dei benevoli giacinti.

Florian guardò la tomba dei nonni di Erich ed osservò i fiori.

-Calle: vita eterna. Crisantemo: regalità. Auguri il meglio a quei defunti.

-Sono i genitori di mia madre, certo che auguro a loro il meglio! Procedi però, non mi lasciare a metà.

-Certamente! Perdonami, Erich.

Florian sospirò e soddisfò la richiesta del ragazzo.

-Come ti dicevo, la botanica e la florigrafia diventarono il mio principale interesse e ciò non piacque affatto ai miei genitori. Continuavano a caricare e caricare e caricare quel mulo da soma che ormai era all’estremo, pensando che così non avrebbe pensato più ai freschi ruscelli e all’erba tenera, ma si sbagliavano: la schiena del mulo si spezzò. Annunciai, finito l’ultimo concerto della mia tournée a Praga, che lasciavo il pianoforte. Fu uno scandalo: i miei erano furiosi e i giornali non parlarono d’altro per dei mesi fino alla nascita del prossimo prodigio. Avevo sporcato il loro buon nome ed entrambi mi rinnegarono come figlio per la mia “azione sconsiderata da viziato”. Mi tolsero i soldi che avevo guadagnato suonando il piano e diedero un ultimatum di tre giorni per prendere le mie cose e andarmene da quella casa, per non tornarci più. Per me, fu un colpo al cuore. Fui costretto a vendere i miei fiori ed alcuni libri per guadagnarmi abbastanza da permettermi di sostare per un po’ in una locanda, ma i soldi non durarono a lungo e dovetti cambiarne svariate, fino a dover vivere per strada. Aspetto e corpo rimasero dalla mia parte, così qualche spicciolo riuscivo a guadagnarlo chiedendo la carità e mi vendevo ai lavori più degradanti possibili in cambio di un pezzo di pane secco e un bicchiere di vino, rischiando ogni giorno la morte per stenti e perdendo sempre di più il decoro al quale tanto ero stato costretto a tenere prima della mia disgrazia. Ho subito di tutto in quegli anni: malattie dalle quali sono guarito solo grazie alla pietà di alcuni, fughe ansiogene per aver commesso l’orribile crimine di voler dormire in un determinato luogo oppure aver chiesto l’elemosina alla persona sbagliata; il mio corpo era ed è tutt’ora pieno di segni di ogni tipo, marchi indelebili della crudeltà umana su chi non reputa degno di alcun bene. Solo i fiori mi erano rimasti compagni. Cercavo di trovarmi da dormire nei parchi per avere il conforto di qualche margherita o tarassaco; se mi andava bene riuscivo a trovare anche qualche violetta, il mio fiore preferito. Purezza, innocenza, profondità; tutto questo in una piccola piantina viola, con i petali fragili come il vetro. Esiste forse fiore più bello?

Florian sospirò.

-Perdona la mia ultima digressione, Erich.

-Non chiedere scusa, mi interessava.

-Davvero?

Chiese il fantasma, abbozzando un sorriso speranzoso.

-Certamente! Questo secolo schifa la delicatezza e la passione, ma io non sono la mia epoca.

-Si vede. Sembri capirmi fin troppo bene.

Erich sorrise.

-La natura del mio tempo mi è matrigna; ormai la nostra generatrice è morta.

Florian scese dalla sua tomba e si mise al suo pari.

-Come sei arrivato a San Candido?

Chiese Erich, guardandolo con interesse.

-Incontrai per caso il becchino di questo cimitero, venuto a Vienna per fare delle compere. Mi offrì di lavorare per lui come garzone in cambio di vitto, alloggio ed una piccola paga. Diceva che gli piacevo.

Rispose Florian, abbracciandosi il petto.

-Era più leggero e meno umiliante dei miei lavori precedenti, ma mi costringeva ad allontanarmi da Vienna, la mia città natale. Non ero felice, anche se mi ero distanziato da coloro che mi maltrattavano e usavano alla prima occasione. Il becchino non si era dimostrato tanto diverso da quelli. Mi fece scavare fosse; smembrare cadaveri per fare spazio ad altri rubando a loro gli abiti; distruggere le bare dei corpi dilaniati per avere della legna da vendere. Poi c’era un odore terribile, così forte e pungente che, in confronto, un pozzo nero sapeva di acqua di rose. Vomitai parecchie volte e mi capitò addirittura di svenire dal tanfo disgustoso, ma il mio capo non fece più del minimo indispensabile per evitare di perdere un valido garzone. Si capiva che non teneva davvero a me. Ero solo un suo dipendente, un pupazzo di paglia e porcellana bianca con il quale poteva giocare come voleva perché, tanto, non ci sarebbero state conseguenze.

-Perchè non ti sei ribellato?

Delle pseudo-lacrime riempirono le palpebre vuote di Florian.

-Non volevo morire di fame. Non potevo tornare al freddo della strada. Sopportai per mero spirito di sopravvivenza.

Erich provò a toccare la spalla dello spettro, ma gli si sporcò la mano di muco.

-Apprezzo lo stesso il tuo gesto.

Disse Florian, asciugandosi le lacrime col braccio e sorridendo dolcemente all’austriaco. Si alzò in piedi e si avvicinò al porticato passando attraverso le lapidi, seguito dal curioso Erich. Guardò in terra.

-Sono morto esattamente qui, durante un inverno gelido.

Si toccò la gola.

-Mentre spazzavo via la neve, una stalattite di ghiaccio crollò e mi trafisse.

Erich storse il naso.

-Non ti credo.

Florian si girò a guardarlo.

-Come mai?

-Perchè non ti sei spostato?

Silenzio.

Lo spettro fece spallucce.

-Che senso aveva? Non avevo nessuno, ero maltrattato ed il mio sogno era ormai morto. Speravo che, almeno così, avrei potuto avere il conforto dei fiori.

Lo spirito sospirò sofferente, guardando con dolore la sua tomba.

-Invece, dato che il giorno successivo era ritornato il sole, il ghiaccio si sciolse ed il becchinò pensò che fu un ladro ad uccidermi. Mi incise l’epitaffio su una lastra scartata, poi mi abbandonò in quel fosso che chiamar tomba è un complimento. Almeno ebbe l’accortezza di lasciarmi i vestiti addosso. Neanche in morte sarei riuscito a stare con i miei amati. Tutti si scordarono di me, divenni l’ennesimo escluso del mio secolo, abbandonato a questo continuo limbo che mi lega, ancora in parte, alla terra che tanto mi ha ripudiato.

Ad Erich pianse il cuore. Non c’è cosa più terribile di un defunto ignorato.

Gli caddero gli occhi su un cespuglio poco distante, percependo una piccola macchia di colore tra le foglie. Si precipitò a controllare, ignorando il “cosa fai?” di Florian e scavando tra i rami. Ormai aveva la testa e le braccia completamente nel cespuglio, ma finalmente fuoriuscì col suo bottino: un bel bouquet di violette, con le radici ancora attaccate allo stelo.

Si spostò verso la tomba di Florian e mosse delicatamente la terra per piantarvici i fiori, innaffiandolo con l’acqua del secchio utilizzato in precedenza.

-Nessuno merita l’alienazione, nemmeno il più insignificante degli esseri umani. Che questi fiori possano esserti da coperta per il tuo eterno sonno.

Florian si commosse. Il suo plasma divenne brillante, illuminando il cimitero con la sua gioia.

Si gettò addosso ad Erich, riempiendogli i vestiti ed il volto di muco.

-Che Dio ti benedica, Erich! Mio salvatore!

Il ragazzo sì pulì velocemente le labbra e le guance con la mano.

-Non sono il Messia, ma un futuro filosofo. Tuttavia, se tu vorrai definirmi “amico”, accolgo e ricambio con gioia l’epiteto.

-Amico! Amico mio! Da quanto non chiamavo qualcuno così?

Lo spettro tornò a donare al nuovo amico tutto l’affetto che teneva dentro di sé. Erich provò a stringere a sua volta Florian, ma spesso il suo corpo scivolava in mezzo a l’ectoplasma e si ritrovò coperto di viscidume da capo a piedi.

Si scrollò i vestiti e lesse l’orologio.

-Sono già le sette e un quarto? Maledizione, ho il treno tra poco!

Guardò Florian sorridendo.

-Ti ritroverò quando tornerò?

Florian sorrise a sua volta.

-Mi hai liberato, il mio limbo è terminato.

Il volto dell’austriaco si spense.

-Tuttavia, -continuò lo spirito- come ogni fantasma, sono e sarò per sempre collegato alla mia tomba. Anche se non riuscirai più a vedermi, sarò sempre vicino a te, mio caro Erich. Sarò in quel epitaffio, in quella terra, in quei fiori.

Gli occhi di Erich si fecero lucidi.

-Allora addio, Florian.

-Addio, amico mio.

Si scambiarono un ultimo sorriso, prima di sparire entrambi nella nebbia.

L’anno dopo, Erich ritornò a San Candido trasportando non soltanto i soliti fiori, ma anche un pesante cartone allungato. Dopo aver compiuto la solita dolce routine per i suoi nonni, si mise alla ricerca della tomba di Florian.

Il suo volto si illuminò: le violette si erano riprodotte, creando un manto viola lungo tutta la terra sopra al cadavere. Pulì la lapide; accese il cero; donò all’amico un mazzo di agrimonie, glicini e gigli bianchi; aprì il pacco e sistemò con fatica l’oggetto. Si era dovuto ricredere, le imponenti croci di ferro erano proprio belle.


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