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La Tempesta e il Capestro

Tempo di lettura: 18 minuti

In tutta la sua ottuagenaria carriera di consigliere alla corte del re di Napoli, Gonzalo non aveva mai visto una tempesta del genere. Pareva che Poseidone avesse schierato tutti i propri spiriti e tritoni a ingaggiare una furiosa battaglia con i turbini di Zeus; nessuno, né Omero né Plinio, non Seneca né tantomeno quel tramontante Bardo d’Inghilterra, l’uomo del fiume di Stratford, avrebbe potuto partorire nella propria fantasia un così spettacolare scatenarsi di elementi.

Era naturale che la corte del re si spaventasse a morte. Quell’accozzaglia di cialtroni, i cui colli erano tanto grassi da strangolarsi nelle gorgiere, erano soliti farsi venire i capelli bianchi per molto meno, ad esempio per un mancato invito a quell’importante ricevimento che serve a rimarcare agli occhi degli stimati colleghi la propria importanza agli occhi dello stimatissimo delfino. Era naturale, naturalissimo, che quella fosse la loro reazione; ma che anche a re Alonso si afflosciassero i favoriti e si inverdissero le guance per la strizza, ecco, ciò Gonzalo proprio non poteva concepirlo.

« Il mio regno per un cavallo! » esclamò il regnante con voce chioccia.

« Perdonate, mio signore » rispose la voce di Antonio, duca milanese, soffocata dalla tramestante corsa dei cavalloni, « ma… in che senso? »

« In che senso cosa, mio buon Antonio? »

« La frase che avete detto »

« Che ho detto? »

« Il vostro regno per un cavallo »

« Uh! »

« Che c’è, vostra maestà? »

« Uh, uh! Bella frase, Antonio, bella frase. Me la segno »

« Ma, sire… l’avete detta voi! »

« Ah, sì? » gracidò re Alonso, arcuando le sovrane sopracciglia cespugliose.

« Ma vi capisco, mio re » si affrettò ad aggiungere il duca di Milano: « questa dannata burrasca mette paura anche a me. È naturale pensare ad altro, esser distratti… »

« Macché burrasca e burrasca! » esclamò Alonso, e per la prima volta quella mattina si concesse una grassa risata, che non si sapeva bene se venisse dal cuore o dal fondo della sua grassa pancia. « Ma che marea e marea! No, no! Questa è faccenda da politicanti »

Alle parole del re i lineamenti di Antonio, già sbattuti di loro, ebbero un istante di vacillamento; la pioggia che picchiettava sui suoi zigomi faceva pensare che, presto o tardi, sarebbe crollato in un pianto di bambino.

« Non vi seguo, maestà »

« È semplice » gongolò Alonso, alzando la voce per farsi udire sopra il muggito del maestrale. « Quando non sappiamo cosa dire, noi uomini di Stato ci empiamo il palato di belle parole, in modo da solleticare l’orecchio degli auscultatori »

Per qualche secondo nessuno osò proferire parola; persino i marinai della nave non si curarono più di stringere il fiocco e il controfiocco, di fissare il carico alla base degl’alberi e, insomma, di sbrigare le faccende cui solitamente si dedicano i marinai. Tutti rimasero di sasso a fissare il re, fradicio di pioggia e raggiante di sorriso. Poi, nobile o reietto, furfante o nobiluomo che fosse, ciascuno lasciò cadere in mare gli oggetti che teneva in mano e si profuse in un accorato applauso per il sovrano di Napoli.

« Bravo, bene! »

« Bene, bravo! »

« Bis! »

« Tris! »

« Ter! »

« Tris! »

« Ter… »

« Tris! »

« Si dice ter, ignorante! »

« Tris! »

« Io ho studiato latino sui testi dell’Erasmo! Chi sei tu per dire… »

« Tris! » esclamò il re, unendosi ai cori festosi.

« Tris! » esclamò il latinista dell’Erasmo, dimenticandosi della dizione e della dignità del mos maiorum.

« Lunga vita a re Alonso! » esclamò Gonzalo, tirando fuori la stessa arzillitudine di quando aveva ottant’anni.

Come un’ospite indesiderato, sul ponte della nave calò il silenzio. I marinai, quasi a ridestarsi da un incantesimo, si accorsero di avere le mani vuote e vanamente strinsero le dita intorno agli attrezzi che avevano lasciato cadere tra i flutti; il latinista smise di dare la mano all’ignorante e la ritrasse in fretta, con imbarazzo, quasi fosse un’anguilla.

« Lunga vita a… » ritentò Gonzalo, ma la voce gli smorì in gola davanti agli sguardi smarriti di tutti i presenti. Serrò la bocca, guardando il re; ma il re guardava lui, incredulo. Lasciò allora che gli occhi vagassero sulla corte, ma in ognuno di loro trovava quella stessa lancinante domanda sottesa ai loro silenzi: perché? Ogni tanto un colpetto di tosse, esploso nei momenti in cui il silenzio era più pieno, andava a rimarcare la colpa del consigliere ed a sottolineare la sua definitiva, incombente condanna.

« Il mio regno per un cavallo » ripeté infine Alonso, rompendo quella strana impasse che si era creata; e i frammenti della festa, sospesi nell’aria come in virtù di un qualche tipo di magia, ricaddero con fragore di vetri sulle assi del ponte. Si era unito un nuovo ospite a quella folla di gentiluomini, e quell’ospite portava il nome che san Paolo attribuì all’ultimo nemico che sarà sconfitto.

« Dannazione, Gonzalo! » esplose d’un tratto Antonio. « Voi e la vostra linguaccia! Un serpente avrebbe avuto più tatto! »

« Ma… »

« Siete amico del diavolo? » gli chiesero i marinai tra gli insulti. « Allora perché mai lo invocate? »

« Ma… che ho detto… »

« Che avete detto? » sibilò Antonio, avvicinandosi a passi felpati e afferrandolo per il bavero. « Che avete detto? Avete fatto il malocchio al nostro re! »

« Il… il malocchio? »

« Sì » esclamarono in coro i presenti. « Lunga vita… ! »

« M- ma… » balbettò il povero Gonzalo. « Era la festa… »

« Hai detto bene » gli sputò Antonio. « Era la festa. Tu l’hai dissolta. Ci hai ricordato che verrà la morte, e la vita non è lunga »

A quel punto calò nuovamente il silenzio. Stavolta però era di un altro tipo: c’era la sorpresa nelle bocche socchiuse, senza voce, dei presenti. Sorpresa, sì, perché Gonzalo, di punto in bianco, aveva contratto il pomo d’Adamo e si era sciolto in una lunga, strozzata, sempre più alta risata a garganella.

« Che cos’ha? » domandò il re, preoccupato.

« Non… io non… » incespicò Antonio, seguitando a tenerlo stretto per il bavero.

« È folle? » domandò una voce tra i marinai.

« Jè… jè micca umbriaco? » biascicò Trinculo, l’ubriacone di corte. « Oste! Hic! Una buottiglia di quello ch’ha preso lui! »

In preda a un’irrazionale e immotivata paura, Antonio scostò da sé il consigliere con una piccola spinta, indietreggiando poi di qualche passo. Gonzalo era oramai piegato in due dal ridere: le lacrime nate dalla sua ilarità si confondevano con le gocce di pioggia che non concedevano un attimo di tregua alla povera nave, sballottata qui e là dagli elementi.

« Uomini di poca fede! » gridò infine il vecchio. « Uomini di poca fede! Voi non vi sapete che cos’è la Provvidenza! »

« Come osi? » ruggì Antonio, riprendendo una parvenza di colore nelle guance.

« Oso, mio buon Antonio, oso! Perché la Tempesta è qui anche per te. Chiede a Dio e al Mare una sola cosa: giustizia! Giustizia per tuo fratello Prospero! »

Fu come se al duca di Milano mancasse improvvisamente il respiro: con un rantolo mosse due o tre passi avanti, vacillando, poi cadde in ginocchio sul sartiame, boccheggiante come un pesce. L’equipaggio si guardò senza capire; la corte si guardò come si guarda il bimbo cui il papà dice: so cosa hai combinato.

« Ih, ih! » ridacchiò, solo tra tutti, Trinculo.

« Ih, ih! » gli fece eco, altrettanto rimbecillito e imbevuto d’alcol, il compare Stefano.

E mentre gli ubriachi ridevano come davanti al giullare della corte, Gonzalo s’unì al loro ridacchiare mentre li additava con esperienza: « Ecco, questa è la festa! La festa degli ubriachi! Per loro ogni posto è uguale all’altro, ogni momento uguale all’altro, perché sono sempre in compagnia del vino. Anche la morte è uguale a ogni altro attimo. La festa vince la morte, vince il terrore di lei. Ma c’è un altro modo di vincere la morte, ed è l’esperienza. Non so se avete mai udito la storia di quel dottore che, in Germania, studiò tanto da vivere oltre il tempo stabilito; conobbe cose che gli consentirono di sfuggire alla morte. Ecco, io sono ora, tra voi, come quel dottore »

« Che dici, Gonzalo? » mormorò re Alonso, potente signore di Napoli, con un tono sommesso che lo faceva rassomigliare ad un agnello.

« Dico, signori, che la Provvidenza colpisce chi deve colpire, e nei modi in cui deve colpire! E che noi tutti, oggi, siamo destinati a non morire in questa spaventosa tempesta! »

Dalla bocca tutta tesa di Antonio sfrigolò un suono indefinibile, come lo sbrodolìo di un animale o di un infante; e quell’assurdo suono rimbombò e s’accrebbe fino a farsi la risata degli ubriachi, la risata dei folli.

« Ma che dici! » squittì, con gli occhi ribaltati dal ridere. « Prospero! Che dici? Siamo destinati… siamo destinati a morire! Buon Dio! Guarda! Guardati attorno, Gonzalo! »

Le parole del duca di Milano furono ovattate dallo scroscio di un’immensa onda, la quale si abbatté sulla fiancata di tribordo e, infrangendosi con lo scoppio del tuono, andò a rovesciarsi sul ponte dell’imbarcazione fino a lambire e le calzature pregiate della corte e i piedi scalzi e rudi dei marinai.

« Hic! » sghignazzò Stefano. « Anche il marre disce la sua. Hic! »

« Ma la sua non è l’ultima parola! » profetizzò Gonzalo, drizzandosi come se l’avesse attraversato un fulmine. « Ascoltate! Ascoltate, ora. È vero, sì: la Provvidenza ha mandato la tempesta a punirci per i crimini di cui ci siamo macchiati in passato. Anche tu, mio re – perdona la franchezza – non hai certo un cuore immacolato, e questo Antonio lo sa bene. Ma Dio, Iddio buono e generoso, ha voluto concederci la salvezza, a noi, povere anime di peccatori, che non la meritiamo se non in virtù del Suo amore! »

La particolare intonazione con cui il consigliere condiva il proprio discorso, nonché i suoi gesti esagerati e il brillio che s’intravvedeva nei suoi occhi, faceva sì che tutti i presenti non riuscissero a distogliere l’attenzione dalla sua persona: forte di chissà quale demonio lo aveva posseduto, Gonzalo salì in tre balzi le scale del cassero e raggiunse il timone, dove afferrò con entrambe le mani l’avambraccio del nostromo e lo levò verso il cielo come se fosse un trofeo.

« Ecco! » gridò. « Ecco il fautore della nostra salvezza! Lunga vita al re! »

Un silenzio instupidito, da bocca aperta, seguì a quell’ultima stramberia. Tra tutti, il solo nostromo ebbe la prontezza di reagire: con uno strattone si liberò dalla presa del buon Gonzalo e contraccambiò prendendogli il polso, pronto a metterlo ai ferri a un cenno del capitano. Gonzalo, dal canto suo, continuava a sorridere da un orecchio all’altro, mentre i suoi eleganti baffoni a manubrio continuavano a gonfiarsi d’umidità e ad agitarsi al vento, simili a due simpatici topolini bianchi.

« Gonzalo! » supplicò re Alonso, le palme rivolte al cielo. « Gonzalo! »

« Sire! » lo scimmiottò il consigliere, reclinando anche il gargarozzo per bere l’acqua piovana. « Sire, sire, sire! »

« Cosa volete che ne faccia? » sbottò il nostromo, trattenendo il matto con durezza.

« Nulla » ridacchiò Antonio, prossimo ad uscir di senno.

« Non so… » borbottò Alonso, ottimo regnante e pronto dispensatore d’ordini.

« Nulla! » strillò tutto allegro Gonzalo. « Nulla, perché voi avete già provveduto ad ogni cosa. Voi, amico mio, voi, voi, voi! »

« È matto » bisbigliò con timore ogni marinaio al suo vicino.

« Lasciatelo parlare! » ordinò il re. Alle sue parole la folla si fece attenta: persino le potenze del cielo cessarono di fare baccano e tesero l’orecchio.

« È presto detto » disse Gonzalo con aria saggia; poi, nello stupore generale, iniziò a cantare i versi di una poesia, subito imitato – sebbene con un leggero ritardo – dai suoi due compari e ammiratori, i poeti elisabettiani messere Trinculo l’Endecasillabo e messere Stefano l’Ottonario:

L’aspetto di costui mi dà conforto:

in viso non ha mica impresso il crisma

d’uno che morirà per affogato;

piuttosto d’uno nato pel capestro.

E tu, destino amico, per favore,

non devi rimangiarti la parola:

e fa’ che la sua corda d’impiccato

sia la gomena nostra di salvezza.

Se quello non è nato per la forca,

allora il nostro è un caso disperato.

« …ratooo! » terminò il coretto degli ubriachi, strappando un applauso di assenso al nevrastenico duca di Milano. La stupidità impressa sul viso del nostromo parlava a nome di tutti i presenti: allora Gonzalo, per adempiere diligentemente il suo ruolo di consigliere, prese l’uomo di mare sottobraccio e iniziò ad arringare la folla: « Voi ben sapete, o signori miei valentissimi, che raramente ho parlato senza prima avere qualcosa da dire. Ebbene, neanche stavolta vi lascerò delusi!

« Sono vecchio, oramai, e la mia corsa si approssima alla fine. Ma proprio l’età – la nemica impietosa di molti miei coetanei – mi ha reso quel che sono, ossia un uomo saggio ed assennato, per quanto il mio signore mi consenta di pavoneggiarmi »

« Concesso » rispose con garbo re Alonso.

« Dunque, da uomo esperto della vita e dei suoi casi, posso affermare di aver visto la vita dipingere con tutti i colori della sua tavolozza: ho assistito a prodigi, meraviglie, casi paranormali, terrori e banalità di ogni tipo. E, tra le molte cose che ho imparato, c’è questa: ognuno di noi ha già la data di scadenza impressa sulla propria pelle »

« Tante grassie » mugugnò Stefano, sventagliando una bottiglia di rum. « Si chiama nascere, sboccato di un vecchio! »

« Io, per conto mio, preferisco pensare all’occasione dell’imbuottigliatura » ridacchiò Trinculo, suscitando le risate di alcuni marinai.

« Silenzio! » ordinò Alonso.

« Grazie, mio re. Ordunque, io vi dico che non solo il quando, ma anche il come tocca morire è già impresso in noi dall’inizio dei tempi, nel disegno imperscrutabile del Signore Iddio. E vi dico che qui, tra di noi, c’è almeno un uomo destinato a non morire affondando in questo mare! »

Una ventina di occhi vogliosi non perdevano di vista Gonzalo nemmeno un istante: così si può immaginare lo stupore generale quando, esattamente come poco prima, il buon consigliere levò alto il polso del nostromo.

« Lui? » domandò la folla esterrefatta.

« Io? » domandò il nostromo con sincero stupore.

« Voi » confermò il consigliere, annuendo con aria saggia.

« Ma… voi dite? »

« Mio buon amico, la vostra faccia non mente! Ne ho vedute moltissime, nel corso della mia vita, di tutti i tipi; ma la vostra è quella che preferisco. La faccia di un pendaglio da forca! »

« Ma… come vi permettete? » si inalberò l’onesto uomo di mare.

« Silenzio » ordinò il re.

« Maestà… »

« Silenzio »

« Sette corvi sull’impiccato… » attaccarono Stefano e Trinculo.

« Silenzio »

« La bella sottana non è un reato… »

« Signori! » li implorò il nostromo.

« Silenzio »

« Grazie, maestà » si inchinò Gonzalo. « Vedete, amici: la faccia da galera di questo gentiluomo è la nostra sola speranza di non annegare in questa tempesta. Il cappio suo è la gomena nostra, perché i cappi si trovano a terra, non certo sul fondo del mare »

« Ha ragione! »

« Bravo, Gonzalo! »

« Quanta saggezza! »

« Il mio regno per un cavallo » sorrise soddisfatto re Alonso.

Intorno alla nave la tempesta riprese a tuonare; o forse l’aveva fatto fino ad allora e nessuno l’aveva degnata di attenzione. Ma, nonostante l’innalzarsi del mare fin quasi sopra il cassero, e il cigolio gemebondo del sartiame, e gli squarci stizziti delle vele bianche, nulla sarebbe riuscito a vincere la festa che regnava sul ponte. Il capitano ordinò che si stappasse il liquore algerino che tanto gelosamente aveva conservato, pensando di goderlo all’osteria del porto insieme ai suoi amici capitani: strano a dirsi, Trinculo fu il primo a obbedire.

« Lunga vitta! » esclamò, mentre il liquore dorato spumeggiava sul gargarozzo e sui vestiti bagnati.

« Lunga vita! » esclamò re Alonso, scoppiando poi in una grassa risata.

« Lunga vita al re! » biascicò Antonio, tornato repentinamente di ottimo umore ma ancora provato dalle forti emozioni.

« Viva! » esclamò il capitano, togliendosi il copricapo e mettendolo al nostromo. « I nostri guai sono finiti. Viva il capitano! »

E in breve un entusiasmo e un sollievo folli si impossessarono di tutti, dall’omaccio al nobile: non si sapeva più se le gocce che cadevano erano quelle della pioggia o lo scroscio continuo dello spumante stappato. Nulla aveva importanza, né imbottigliatura né scadenza né avvenire, perché l’ospite sgradito se n’era andato, e per quel giorno – almeno per quel dì – non sarebbe tornato. Non c’erano capestri in mare; c’era, in compenso, tanta allegria da resuscitare un morto.

« Signori! » vociò ad un tratto il nostromo, l’uomo della salvezza.

« Maestà! » gli fece eco la corte di napoletani e marinai.

« Ho ancora sete » decretò il nuovo re, simulando una punta di insofferenza a favore del gioco. « So che il nostromo di questa nave, di nascosto da tutti, ha imbarcato una cassa di ottimo Chianti: ora che quel maramaldo non c’è più, ordino che sia preso fuori per fare festa! »

« Ottima idea, capitano! »

« Evviva il capitano! »

« Evviva il nostro re! », gongolò Alonso, pregustando il sapore del vino.

« Ordunque, chi va? »

« Vado io, maestà! » si offrì spontaneamente Gonzalo. La maggioranza dei presenti gli sorrise con gratitudine: ognuno, oramai, riconosceva nel consigliere e nella sua saggezza la causa prima del loro scampo e della loro letizia.

« Bravo! » lo lodò il re che fu nostromo. « Bene! »

« Che gli assetati si dissetino! » esclamò Gonzalo, scattando come un ventenne per il ponte nell’incitamento generale. A questo punto accadde una cosa stranissima: Gonzalo puntò i tacchi – scivolando per un po’ sul ponte bagnato – e smise di correre, muovendo la testa ora a destra, ora a sinistra.

« Che c’è, mio fido? » domandò il nuovo re.

« Non conosco la strada, signore » rispose da lontano il consigliere.

« Perbacco, hai ragione! » rispose il re battendosi la fronte. « Vengo con te »

E così i due signori di palazzo, le cui facce erano oneste come quelle dei condannati alla forca, si incamminarono giù nella stiva: alle loro orecchie arrivava ancora, ovattato dal soffitto di legno e dalle reti che vi pendevano, il canto dei festanti:

Non avrei mai immaginato

O tempesta sul sagrato

Che lo scampo avrei trovato

Nel bel viso d’impiccato

Del buon re che mi ha salvato!

« Vi lodano, sire » disse Gonzalo con un caldo sorriso.

« Tutto merito tuo, Gonzalo » rispose il re. « Hai ricordato a questa tempesta qual è il posto che le spetta. Non ci sono capestri in fondo al mare »

« Giusto » annuì Gonzalo. « Allora, quel Chianti… »

« Pronti »

Rispondendo al suo sangue di nostromo, che la regalità non aveva ancora del tutto intaccato, il re della festa si protese in avanti verso un mucchio di vecchie casse e cordame, in parte arrotolato in parte pendente dalle travi del soffitto, e allungò la mano in direzione di una cassa mezza aperta e ripiena di paglia, in cui riluceva inconfondibile una bottiglia di vetro soffiato.

« Non ci arrivo » sbuffò. « Ci sono troppe casse »

« E voi arrampicatevi, maestà » lo spronò Gonzalo, quasi per gioco. « Fate conto di star salendo sul patibolo! »

« Dio non lo voglia » sorrise il re, mettendosi in piedi su una cassa e protendendosi in avanti.

Mentre Gonzalo si faceva i complimenti per la decennale saggezza, fugando dal suo cuore l’ultima parvenza di paura, la stiva rimbombò di uno scoppio di tuono, tanto forte che pareva avessero gonfiato il cielo per poi bucarlo come un palloncino; quasi nello stesso istante, un’onda più potente delle altre si abbatté sulla fiancata della nave e la inclinò su di un lato, facendo perdere l’equilibrio a tutti i passeggeri. Con dei riflessi invidiabili, il saggio consigliere si aggrappò ad una cima e vi si tenne stretto, evitando di finire a gambe all’aria e di ruzzolare dall’altra parte della stiva; fece per gridare al re di fare lo stesso, ma si accorse con orrore che entrambe le sue mani erano già occupate a stringere una bottiglia di ottimo Chianti.

Quel che avvenne in seguito è difficile da credere. Persino gli occhi di Gonzalo, che in vita loro avevano assistito a eventi di ogni tipo, si trovarono ad osservare l’intera scena al pari di bambini ingenui e impotenti. Le mani del re, cercando un appiglio che non c’era, si impigliarono in una robusta fune che pendeva ad arco, con le estremità legate al soffitto, e, non riuscendo a staccarsi, vi ingaggiarono una lotta mortale; contemporaneamente il re, preso dal panico, iniziò a scalciare e a dimenarsi, facendo cadere a terra le cassettine su cui si era arrampicato e andando a tendere al massimo la cima che lo intrappolava. Tra infiniti giri e avvitamenti, che nella loro lentezza parevano prolungarsi grottescamente e dilatarsi più del dovuto, la gomena si avvitò attorno alle braccia e alle ascelle del nostromo, mentre il suo torso si allungava a cercare, con le punte dei piedi, il sostegno delle casse sul fondo. Quando finalmente vi riuscì, una scintilla di speranza si accese sul suo viso paonazzo; ma una seconda, più potente ondata andò a percuotere la stanza, causandogli un giro di corda intorno al collo e un sussulto nervoso alle dita dei piedi. Le casse, l’ultimo baluardo che gli consentiva di stare ritto, sbandarono lontano dal sovrano e andarono a infrangersi contro la parete.

Fu come se Gonzalo fosse diventato di pietra. Il suo brillante cervello aveva cessato di funzionare, il suo acume non lo degnava più del proprio tocco miracoloso, l’esperienza di Faust si rivelava nella sua piena disgrazia. Le sue orecchie erano occupate a raccogliere un unico suono: il rantolo smorente del suo re, accompagnato dal lento, ritmico cigolio di una corda tesa che, anche senza vento, gira su se stessa, tirata da un macabro fardello. Non sentiva più il vociare della festa: in compenso, il ruggito che saliva dal mare pareva essere un ineludibile richiamo per la nave e l’intero equipaggio.

« M- maestà? » pigolò.

E all’improvviso il consigliere comprese di non essere solo. Qualcun altro era stato spettatore dell’intera scena: qualcuno i cui occhi, come quelli di Gonzalo, avevano assistito ai prodigi e alle meschinità più varie, nel corso di una e innumerevoli vite. Finalmente capì perché non sentiva più la festa: era arrivato l’ospite indesiderato, l’ultimo guastafeste di cui scrisse san Paolo, che non si cura dei visi della gente o, meglio, che ne fa una questione di principio. Gonzalo sorrise, scoprendosi battuto; e, mentre lo schianto del cappio diventava lo schianto della nave che si spezza in due, un’ultima voce risuonò nella stiva, perdendosi sul fondo di una bottiglia di Chianti:

« Il re è morto. Lunga vita al re »


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